Primo maggio: un mondo cambiato

Ma c’è molto di più. Quella parola inglese, mismatch, con la quale da qualche tempo abbiamo familiarizzato non vuol più dire solo che non c’è una corrispondenza tra formazione e richiesta di determinate figure professionali e che, di conseguenza, molti settori non trovano più le persone che cercano. Ormai, specie nei servizi, molte imprese sono costrette a rimodulare le proprie aperture o addirittura rischiano di chiudere per difficoltà di reclutamento. Siamo andati oltre il mismatch. Una volta quando un candidato si presentava a un colloquio era lui ad essere sotto esame. I potenziali datori di lavoro ne vagliavano curriculum, competenze e attitudini. Oggi siamo a un rovesciamento: è il candidato che sceglie il datore di lavoro ed è lui a incalzare l’interlocutore chiedendo tutta una serie di dettagliate informazioni sulla cultura e la prassi aziendale. Dallo smart working alla presenza di istituti di welfare, dai percorsi professionali ai tempi di percorrenza del tragitto casa-lavoro. È una rivoluzione e anche in questo caso le imprese si trovano a fare apprendistato, a dover imparare in corsa che cosa rispondere per non «perdere i più bravi».

«Certo lo stipendio resta importante (per il 64% degli intervistati) ma è altrettanto importante trovare un purpose ossia uno scopo nel lavoro ed essere coinvolto nel costruire il futuro dell’azienda per la quale lavoreranno (50% delle risposte)». È solo un estratto di una ricerca condotta da Jointly, una società specializzata nel welfare aziendale, che ha condotto un sondaggio tra i ragazzi di età compresa tra i 17 e i 18 anni e spiega come le tendenze di cui sopra abbiano sfondato anche tra chi deve ancora affacciarsi sul mercato. Potrei continuare proponendo altri flash dal mondo del lavoro che cambia ma forse è più interessante a questo punto porsi la domanda se di questa profonda discontinuità ci sia piena contezza nella società politica e dentro gli stessi storici sindacati. Se dovessimo prendere come test la preparazione di questo Primo Maggio dovremmo, purtroppo, dire di no.

CORRIERE.IT

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