Troppi disoccupati, serve una vera riforma
Il mondo del lavoro oggi si muove in fretta ed esige transizioni rapide, mentre noi, individui e società, fatichiamo ad adattarci, rifugiandoci spesso in una sterile difesa dello status quo, in termini sia di sostegno a imprese improduttive, sia di poco efficaci reti di protezione e di reinserimento lavorativo, che dovrebbero trasformare in lavoro effettivo e dignitoso una generica “occupabilità”.
Dobbiamo però non soltanto adattarci al cambiamento ma anche esserne fautori. E questo richiede forti investimenti nella formazione, generale e tecnica, e grande collaborazione tra il sistema educativo e i nuovi luoghi della creazione di capitale umano e tecnologico, come i laboratori da cui escono le innovazioni, oltre ai più tradizionali mondi della manifattura e dei servizi, con fabbriche, officine, cantieri, uffici, tutti sempre più automatizzati e bisognosi di lavoratori specializzati. Occorrono progetti e sperimentazioni comuni con finanziamenti adeguati, e perciò anche con nuove modalità di concessione del credito. Occorre una diversa cultura del rischio e, di contro, strumenti di mercato e politiche efficienti per una sua migliore gestione.
Il cambiamento non deve però riguardare soltanto la tipologia dei lavori ma anche gli atteggiamenti nei confronti del lavoro, rispetto al quale sembra oggi dominante, soprattutto tra i giovani, la sfiducia. Si tratta di un cambio di priorità e di mentalità, che oggi rendono meno facile il dialogo tra chi cerca e chi offre lavoro e causa un numero rilevante di posti vacanti (stimato in circa 1.200.000) in un Paese che ha l’8% di forza lavoro disoccupata e milioni di persone in età lavorativa che ne sono al di fuori. Il cambio di mentalità deve però riguardare anche le imprese, le loro politiche di reclutamento e di gestione del personale, e quelle retributive, per creare una cultura imprenditoriale che riconosca l’essenzialità e la non subalternità del lavoro nel processo di creazione di valore, alla base non soltanto dei profitti ma di remunerazioni adeguate e di sostenibilità sociale.
Lo scarto tra le sfide che abbiamo di fronte e l’illusione di risolverle con decreti che sembrano adottati soprattutto per mostrare di essere più bravi dei governi precedenti è enorme. Non possiamo non richiamare le grandi intese del passato, come l’accordo del ‘75 sulla scala mobile o il Patto per la politica dei redditi e lo sviluppo firmato nel luglio 1993 dal governo Ciampi con imprenditori e sindacati, e la concertazione che ne seguì. Altri tempi, però, altri stili, altre stature.
LA STAMPA
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