Galli Della Loggia: “I miti della sinistra cadono uno a uno. E Meloni…”
Da dove deve partire la nuova narrazione conservatrice?
«Da un’analisi del presente realistica, quindi spietata e drammatica. Da
qui bisogna partire per affermare la necessità di difendere tutto ciò
che va difeso del presente vitale che abbiamo ereditato dal passato. È
inutile blaterare e perdersi nel ricordo del bel mondo che fu (se poi fu
davvero così bello…). Bisogna spiegare bene alla gente quel che sta
succedendo oggi e quello che molto probabilmente succederà domani se non
si difendono certi valori e certe istituzioni».
Gli italiani sono pronti a sentirsi dire che serve una cura da cavallo?
«Non lo so, ma i veri leader non si fanno domande di questo tipo.
Procedono per la loro strada cercando di spiegarla ai cittadini. Il
politico che si chiede a ogni mossa che fa se gli porta voti o glieli
leva non sarà mai uno statista».
«Perché una posizione conservatrice appare in Italia sempre fautrice di un che di retrivo e anche la difesa di valori pur meritevoli, come Dio, Patria e Famiglia, mostra sempre un che di goffo e stantio?» si chiedeva all’indomani del 25 aprile Ernesto Galli della Loggia dalle colonne del Corriere della Sera, del quale è tra gli editorialisti principi. La risposta, secondo lo storico, che è anche un profondo conoscitore dei meccanismi dell’economia e della comunicazione contemporanea, è «perché da noi è dominante una narrazione d’area sinistra e cattolica che esalta le magnifiche sorti progressive ma che ora dimostra i propri punti deboli». Sui quali appunto il partito conservatore dovrebbe picchiare. «Ci sono principi come l’efficienza della Pubblica Amministrazione, il merito nella scuola, la centralità della difesa degli interessi nazionali e finanche dei confini, l’importanza di essere autonomi nei fattori di produzione e di avere difese commerciali, la riscoperta del valore della naturalità biologica minacciata da teorie che azzerano le barriere genetiche che sembrano la risposta a un’angoscia crescente» spiega il professore emerito di Storia Contemporanea dell’Istituto Italiano di Scienze Umane concludendo che «il momento è propizio perché i nodi drammatici del presente sono sotto gli occhi di tutti; certo, per farlo devi avere qualità, idee, libri letti».
Fratelli d’Italia e il governo fanno bene dunque a portare
avanti le battaglie identitarie che spesso sono state criticate
dall’opposizione?
«Parlo in generale: le battaglie identitarie sarebbe meglio farle in
maniera maggiormente argomentata e inquadrarle in un discorso
complessivo sul drammatico momento storico che stiamo vivendo. Fatte
episodicamente come voci dal sen fuggite rischiano sempre di suonare
come provocazioni o recriminazioni nostalgiche».
Ma le battaglie troppo identitarie, a destra come a sinistra,
non restringono gli spazi di crescita anziché allargare gli orizzonti
di un partito, e quindi il potenziale consenso?
«Non credo. Perché la gente voti un partito piuttosto che un altro resta
un grande mistero ma l’identità è importante. Certo, sbagli quando
insisti su concetti che ti fanno apparire come una conventicola
piuttosto che un grande partito, ma tre o quattro orientamenti di fondo
vanno trovati perché devi essere chiaro e riconoscibile. Poi, siccome
non puoi illuderti che tutti la pensino allo stesso modo, devi essere
anche capace di presentarti comunque come un partito “aperto”».
Ci vorrebbe uno storytelling di stile renziano?
«Non mi pare l’esempio corretto. Renzi aveva avuto intuizioni anche
giuste nel referendum che ne ha sancito la fine della sua avventura a
Palazzo Chigi ma ha difettato proprio nello spiegare i motivi per cui
gli italiani avrebbero dovuto votare le sue proposte, che ai più invece
sono sembrate solo funzionali all’accrescimento del suo ruolo personale.
Affrontare la Costituzione, con tutto quello di mitico e retorico che
si porta appresso, significa scalare l’Everest della politica, devi
spiegare bene».
Quindi per la Meloni sarebbe meglio archiviare le velleità riformatrici e il disegno presidenzialista?
«Presidenzialismo è una parola che copre realtà e soluzioni anche molto
diverse. Io mi accontenterei di un deciso rafforzamento dell’esecutivo,
non mi interessa ottenuto come. Anche qui bisogna sapere spiegare ad
esempio che oggi praticamente il Parlamento è ormai un’istituzione
paralizzata, priva di qualunque potere effettivo di legiferare e
deputata solo ad approvare o meno le proposte di legge del governo. Se
la Meloni vuole cambiare le istituzioni deve sostenere le sue tesi con
analisi adeguate; e comunque non sarà facile».
Lei ha capito come mai la Meloni in tre anni è passata dall’irrilevanza a vincere le elezioni?
«Un po’ perché rappresentava l’ultima carta da provare dopo averle
tentate tutte. Poi perché come donna offriva un’immagine
tranquillizzante rispetto alle accuse di fascismo su cui la sinistra ha
giocato la campagna elettorale. Accuse che, confrontate con l’immagine
della Meloni, mi pare che suonassero abbastanza ridicole. Infine – ma in
misura rilevante – perché, come le dicevo, sempre più italiani hanno la
percezione che la narrazione progressista faccia acqua e che ci sia
bisogno di proposte nuove».
Se pensiamo all’emiciclo parlamentare, sembra che con l’idea
del partito conservatore la destra si espanda sempre più verso il centro
e che il Pd tenda sempre più a schiacciarsi a sinistra, con M5S pronto a
mangiargli seggi…
«In questo ragionamento io non parlerei di Pd ma del partito della Schlein».
In che senso?
«Il Pd in realtà aveva eletto Bonaccini come leader. Poi, siccome ha
deciso di sottoporre la sua scelta a un plebiscito aperto in pratica a
tutti, la Schlein è uscita come segretaria».
L’ha stupita?
«Non mi stupisce che ci siano un milione di italiani che pensano che
l’Ucraina non vada difesa, che la pace sia dietro l’angolo e il mondo
dovrebbe essere tutto fluido. Trovo però bizzarro che il Pd si sia
affidato a loro, e conseguentemente penso che nel partito si aprirà
prima o poi una crisi grave, delle quale si vedono già le avvisaglie. Se
la Schlein manterrà fede alla sua linea, quelle singole defezioni che
già si registrano diventeranno un esodo».
Ma se si apre un buco nella rappresentanza moderata perché,
anziché la Meloni, non dovrebbe giovarsene il centro, non
necessariamente di Renzi o Calenda?
«Non bisogna farsi ipnotizzare dalle etichette. In Fdi c’è moltissimo
elettorato di centro. Il centro esiste come un’effettiva posizione
politica solo se sia la sinistra sia la destra si attestano su posizioni
molto pronunciate in senso radicale. Ma se la Meloni riesce a
trasformare il suo partito in una destra moderata, liberale e
conservatrice, e la Schlein si arrocca a sinistra, mi sembra chiaro chi
delle due si accaparrerà i voti del cosiddetto centro».
Mi sembra che con la sua politica internazionale il premier
sia riuscito a strapparsi di dosso l’etichetta di sovranista che le
aveva affibbiato la sinistra per presentarsi piuttosto come patriota,
come ha sempre voluto…
«Sì. L’opposizione non perde occasione per collegarla a Orbàn, ai
polacchi e agli spagnoli di Vox, ma se le riesce l’operazione di
allacciare i rapporti con il Ppe, e magari addirittura costruire una
nuova maggioranza a Bruxelles, con un asse tra popolari e conservatori,
l’etichetta di sovranista sparirà del tutto. Il suo asso nella manica al
momento mi pare il rapporto privilegiato con gli Stati Uniti. Si parla
tanto di Meloni filo-atlantista in Ucraina ma non viene dato abbastanza
rilievo al fatto che dopo l’estate la portaerei Cavour andrà a
pattugliare il Pacifico, non so se anche il Mar Cinese meridionale
attorno a Taiwan. Questa forma di collaborazione con l’apparato militare
statunitense al di fuori della Nato è una grande operazione politica».
Con il viaggio a Londra, dove è stata accolta con tutti gli
onori, la Meloni si candida a sostituire la Gran Bretagna come membro
“americano” nella Ue?
«Non mi spingerei a dire tanto. Di fatto l’Inghilterra stava nell’Europa
per immobilizzarla, anche se come si è visto dopo l’addio di Londra la
Ue è capace di farsi male da sola. Per ragioni storiche, la Gran
Bretagna ha rapporti con Washington che Roma non potrà mai avere. Il
viaggio conferma però che il nostro governo può contare sull’appoggio
convinto non solo dei democratici Usa ma in generale anche dei
conservatori del mondo anglosassone».
Cosa può favorire e cosa può sabotare il piano della Meloni di fare un partito conservatore?
«Un successo diplomatico nell’Unione Europea, con l’asse tra
conservatori e popolari, e provvedimenti di governo efficaci la
aiuterebbero molto. La danneggiano invece comportamenti sbagliati, come
le discussioni in conferenza stampa con i giornalisti che abbiamo visto a
Cutro, o le dichiarazioni avventate e che guardano indietro da parte
della sua classe dirigente, oltre naturalmente eventuali fallimenti di
governo. Anche se io penso che l’ostacolo più grande al partito
conservatore sia la leadership di Salvini».
Perché?
«Perché se l’ipotesi partito conservatore si accreditasse a quel punto o
la Lega strappa e si butta a destra – ma andando di sicuro incontro a
una scissione con molti che non seguirebbero il leader- o sarebbe
destinata a rivestire un ruolo secondario, e questo Salvini non credo lo
accetterebbe».
Per ora filano d’amore e d’accordo…
«Sì, Salvini sta cercando di cambiare la propria immagine. È diventato
un leader del darsi da fare anziché del parlare sempre e comunque. Se
gli riuscirà almeno di avviare concretamente il Ponte sullo Stretto la
sua figura ne guadagnerà parecchio».
Con il partito conservatore cadrebbe anche la pregiudiziale antifascista nei confronti del premier…
«Ma nessuno in Italia crede che la Meloni sia fascista, neppure la
sinistra, che infatti le rimprovera non già questo bensì il non
dichiararsi antifascista. Sono due cose molto diverse».
E perché non lo fa e chiude la partita per sempre?
“Le converrebbe dichiararsi antifascista ma capisco che ritenga di non
poterlo fare. Un premier non si può fare dettare le parole
dall’opposizione che ha sconfitto e nessuno poi può usare il linguaggio
dell’avversario, significherebbe riconoscere che ha ragione. Sono
convinto che Giorgio Napolitano smise di essere comunista e divenne un
socialdemocratico fin dagli anni ‘70 del secolo scorso. Ma sono certo
che se alla vigilia di essere eletto Presidente della Repubblica
qualcuno gli avesse chiesto di dichiararsi anticomunista lo avrebbe
giustamente mandato al diavolo».
La Meloni non potrebbe inserire in Costituzione il concetto
che la Repubblica italiana è democratica, antifascista e anticomunista, e
chiudere la vicenda?
«Pessimo consiglio, partirebbe una canea mai vista. La mossa sarebbe
troppo audace e poi una Costituzione deve proclamare i valori che
incarna non quelli che osteggia».
Ma allora la Costituzione non è neanche antifascista, tant’è che letteralmente la parola manca?
«Le parole fascismo e antifascismo oggi non hanno più nessuna relazione
con il loro significato originario. Sono termini per marcare differenze e
aggredire l’avversario. E lo stesso vale per la parola Resistenza, che
oggi è usata per polemizzare con la destra e tenerla all’angolo mentre
la Resistenza vera era tutt’altro».
Vedremo mai un 25 aprile non divisivo?
«No, perché non si vuole che non sia divisivo».
Fa comodo a tutti che sia così?
«Be’ a tutti no, direi. Cambiare significato alle parole fascismo e resistenza ha avuto l’effetto di impedire ogni analisi storica su cosa siano stati l’uno e l’altra e quindi di rendere impossibile qualsiasi cosa assomigli a una fine della rissa. Ormai ho perso ogni speranza e poi sull’argomento ho già detto tutto quello che avevo da dire».
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