Attentato a Putin, uno sfregio all’immagine dello zar intoccabile. I «duri» chiedono vendetta
di Marco Imarisio
In crisi l’immagine di potenza che i russi proiettano sul Cremlino. Medvedev indica «l’unica opzione possibile: eliminare fisicamente Volodymyr Zelensky»
Come nel 1942. Quando caddero per l’ultima volta le bombe su Mosca, il nemico era alle porte e il piccolo padre Stalin era chiuso in un bunker. Da ieri pomeriggio i media di Stato ripetono questo mantra all’unisono. Non lo fanno per disfattismo, ma per risvegliare paure ancestrali nel loro vasto pubblico, quello della Russia più profonda.
Nelle ultime settimane molti conduttori e ospiti dei più importanti talk show di propaganda avevano evocato lo spauracchio di un attacco su Mosca. Lo aveva fatto Vladimir Solovyov, che il 27 aprile aveva detto di essere «preoccupatissimo» per l’incolumità personale del suo grande amico Vladimir Putin.
Due giorni dopo, Igor Korotchenko, analista militare di fiducia del Cremlino, aveva avvertito della possibilità di attacchi terroristici ucraini contro la Federazione russa «nei prossimi giorni», motivandola con una specie di eresia. Il fatto che i servizi segreti inglesi e americani stiano trasmettendo al governo di Kiev informazioni preziose sullo stato del sistema di difesa aerea di Mosca dimostra «come i nostri principali nemici di oggi non abbiano più paura di noi». Forse non si tratta di un vero attentato. Ma è senz’altro qualcosa di peggio. È l’attacco a un simbolo, a una immagine di potenza che costituisce il segreto neppure troppo nascosto del legame tra Putin e il suo popolo.
Alcuni storici sostengono che il fallimento di Mikhail Gorbaciov e del suo progetto di riforme è cominciato nel 1987 con il volo di Mathias Rust sulla Piazza Rossa, quando il suo piccolo aereo da turismo bucò una difesa dei cieli sopra il Cremlino che si credeva impenetrabile, causando per altro licenziamento a catena ai vertici dell’esercito. Quel giorno, molti russi capirono che l’uomo della perestrojka non era un vero Zar, non era una guida infallibile, perché non era in grado di proteggere il proprio giardino di casa.
«L’unico vero problema che pone un evento del genere è che non esiste una replica realistica», spiega al telefono Sergey Markov, il super falco che dal 2011 al 2019 è stato l’addetto alle missioni estere più complicate per conto del Cremlino. «Non sappiamo dov’è Zelensky e sicuramente da oggi lo nasconderanno ancora meglio. Colpire Kiev significherebbe distruggere una città russa, colpire Washington farebbe cominciare la Terza guerra mondiale, e usare il nucleare ci isolerebbe ancora di più. Uno a zero per i nostri avversari, chiunque essi siano hanno fatto un bel colpo di immagine». Dunque, è lesa maestà. Poco importa che Putin fosse altrove, nella sua residenza di Novo-Ogaryovo, vicina alla quale ha fatto da poco costruire una ferrovia privata più che segreta, perché il Cremlino sa come custodire i veri segreti. È per lui che hanno suonato i droni sul Cremlino, beffandosi del mito della sua intoccabilità. Il dispositivo di sicurezza che lo circonda coinvolgendo oltre cinquecento che si dedicano solo a lui, è fonte continua di fascinazioni e iperboli che si autoalimentano. Come i sosia pronti all’uso che verrebbero utilizzati in certe situazioni particolari, gli invisibili schermi antiproiettili sempre disposti dietro alle sue spalle, gli ombrelli da difesa rinforzati in kevlar in dotazione ai suoi angeli custodi, fino ai treni personali corazzati, agli imponenti cortei di auto che bloccano il centro di Mosca con compiaciuta enfasi quando il Capo va in ufficio.
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