Lavoro e reddito di cittadinanza. Il decreto della discordia

Francesco Curridori

Il decreto Lavoro, varato dal governo Meloni il primo maggio in occasione della Festa dei Lavoratori, continua a dividere il mondo politico. Per la rubrica Il bianco e il nero abbiamo raccolto le opinioni dei giuslavoristi Pietro Ichino e Maurizio Sacconi.

Come giudica il decreto lavoro nel suo complesso?

Ichino: “I contenuti pratici del decreto sono molto modesti. C’è qualche cosa di positivo e qualche cosa di negativo, ma in entrambi i casi in piccole dosi: la quantità del cambiamento effettivo è limitata. Ho trovato invece decisamente non buona la qualità del testo legislativo: ne risultano aumentate la complessità del quadro normativo e la sua difficoltà di lettura”.

Sacconi: “Il mio giudizio è sostanzialmente positivo anche se sarà necessaria una lettura attenta perché ‘il diavolo può nascondersi nei dettagli’. Appropriatezza dei sostegni al reddito, difesa del potere d’acquisto dei salari, incoraggiamento ad assumere sono obiettivi necessari ancorché non sufficienti. Penso che sarà utile un continuo monitoraggio sui prezzi dei prodotti più sensibili, su affitti e mutui nelle città, sugli andamenti della contrattazione collettiva per sostenere i redditi da lavoro. Come ritengo importante una svolta nelle politiche di accompagnamento al lavoro scatenando attraverso i voucher ai disoccupati una pluralità di intermediari. Pubblici, privati e privato-sociali”.

Lei crede che l’abolizione del reddito di cittadinanza fosse necessaria?

Ichino: “Guardi che non è stato abolito: è stato soltanto ridotto il sostegno ai cosiddetti ‘occupabili’. Bene che il godimento del beneficio venga condizionato alla frequenza di un corso di formazione; ma nel decreto la nozione di «occupabile» resta avvolta nella nebbia; ed esso non dedica una parola al controllo circa la qualità ed efficacia dei corsi di formazione che i beneficiari dovrebbero frequentare”.

Sacconi: “Si. Il sussidio per la povertà deve essere distinto da quello per la disoccupazione. Nel primo caso deve essere gestito in prossimità da comuni e volontariato per promuovere l’uscita dal disagio sociale. Nel secondo caso deve essere funzionale al lavoro”.

Il decreto aumenta la precarizzazione del mondo del lavoro?

Ichino: “Nella nuova norma sui contratti a termine, francamente, non vedo né una semplificazione né un cambiamento sostanziale. Viene conservata la disciplina attuale, che consente l’assunzione a termine senza «causale» per un massimo di 12 mesi; si prevede che la determinazione delle causali per una maggiore durata del rapporto a termine sia affidata ai contratti collettivi, i quali dovranno provvedere entro la fine del 2024; in attesa che questi vengano stipulati, si ripropone il vincolo delle «esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva», cioè il cosiddetto «causalone» del decreto n. 368/del 2001, che allora servì soltanto a gonfiare il contenzioso giudiziale”.

Sacconi: “Non mi pare proprio. I contratti a termine comprendono tutte le tutele e preludono spesso alla trasformazione in rapporti di lavoro duraturi. L’importante è incoraggiare le assunzioni in un tempo di incertezze”.

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