Michela Murgia: «Ho un tumore al quarto stadio, mi rimangono mesi di vita: ho deciso di sposarmi»
La scrittrice parla della malattia, un tumore al rene: «Ho comprato una casa con dieci letti dove la mia famiglia queer può vivere insieme». La scelta: «Posso sopportare il dolore, non di non essere presente a me stessa. Ho trascurato i controlli per il Covid. Chi mi vuol bene sa cosa deve fare. Sono sempre stata vicina a Marco Cappato»
Michela Murgia, il suo nuovo, splendido
libro, «Tre ciotole», si apre con la diagnosi di un male incurabile. C’è
qualcosa di autobiografico?
«È pedissequo. È il racconto di quello che mi sta succedendo. Diagnosi compresa».
Lei scrive: «Carcinoma renale al quarto stadio». Non ci sono speranze?
«Dal quarto stadio non si torna indietro».
Il personaggio del suo libro però non vuol sentir parlare di «lotta» contro il male. Perché?
«Perché non mi riconosco nel registro bellico. Mi sto curando con
un’immunoterapia a base di biofarmaci. Non attacca la malattia; stimola
la risposta del sistema immunitario. L’obiettivo non è sradicare il
male, è tardi, ma guadagnare tempo. Mesi, forse molti».
Cosa intende per registro bellico?
«Parole come lotta, guerra, trincea… Il cancro è una malattia
molto gentile. Può crescere per anni senza farsene accorgere. In
particolare sul rene, un organo che ha tanto spazio attorno».
Non può operarsi?
«Non avrebbe senso. Le metastasi sono già ai polmoni, alle ossa, al cervello».
Michela, lei sta dicendo una cosa terribile con una serenità che mi impressiona.
«Il cancro non è una cosa che ho; è una cosa che sono. Me l’ha
spiegato bene il medico che mi segue, un genio. Gli organismi
monocellulari non hanno neoplasie; ma non scrivono romanzi, non imparano
le lingue, non studiano il coreano. Il cancro è un complice della mia
complessità, non un nemico da distruggere. Non posso e non voglio fare
guerra al mio corpo, a me stessa. Il tumore è uno dei prezzi che puoi
pagare per essere speciale. Non lo chiamerei mai il maledetto, o
l’alieno».
L’alieno lo chiamava Oriana Fallaci.
«Ognuno reagisce alla sua maniera e io rispetto tutti. Ma definirlo
così sarebbe come sentirsi posseduta da un demone. E allora non
servirebbe una cura, ma un esorcismo. Meglio accettare che quello che mi
sta succedendo faccia parte di me. La guerra presuppone sconfitti e
vincitori; io conosco già la fine della storia, ma non mi sento una
perdente. La guerra vera è quella in Ucraina. Non posso avere Putin e
Zelensky dentro di me. Non avrei mai trovato le energie per scrivere
questo libro in tre mesi».
La morte non le pare un’ingiustizia?
«No. Ho cinquant’anni, ma ho vissuto dieci vite. Ho fatto cose che
la stragrande maggioranza delle persone non fa in una vita intera. Cose
che non sapevo neppure di desiderare. Ho ricordi preziosi».
Una delle sue altre vite la conosciamo:
operatrice in un call center. Ne ha tratto un libro, «Il mondo deve
sapere», che ha ispirato il film di Virzì con Sabrina Ferilli «Tutta la
vita davanti». Le altre vite quali sono?
«Ho consegnato cartelle esattoriali. Ho insegnato per sei anni
religione. Ho diretto il reparto amministrativo di una centrale
termoelettrica. Ho portato piatti in tavola. Ho venduto multiproprietà.
Ho fatto la portiera notturna in un hotel…».
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