Michela Murgia: «Ho un tumore al quarto stadio, mi rimangono mesi di vita: ho deciso di sposarmi»
In Sardegna?
«Nel posto più lontano e diverso dal mio paese, Cabras, che potessi
trovare: l’hotel Perego al passo dello Stelvio, sull’unico ghiacciaio
dove si scia pure d’estate. Ero la sola italiana, con Aisha, marocchina,
Mohamed, berbero, Cheik, dell’Africa nera, e Mikhail, serbo. A tavola
recitavamo la preghiera cattolica, quella musulmana e quella ortodossa.
Il piatto più richiesto dai clienti era lo stinco di maiale e ogni volta
era una scommessa: in cucina c’erano Mohamed e Cheik, che non ne hanno
mai assaggiato uno…».
Ora sta studiando il coreano? Come mai?
«Da due anni. Volevo anche andare in Corea, ma le mie condizioni per
ora non lo consentono. Tutto nasce da una passione per il k-pop e per i
Bts, una musica e un gruppo che mi danno grandissima gioia. Ho iniziato
a studiare il coreano per capire i testi. Poi mi sono resa conto che la
vera ragione era un’altra».
Quale?
«Me l’ha spiegata Jhumpa Lahiri. Gli scrittori postcoloniali, che
hanno avuto successo non nella loro lingua originaria ma in quella
dominante del colonizzatore, tendono a cercare un terzo spazio, una
terza patria. Per Jhumpa, che ha origini indiane e scrive in inglese, è
l’Italia. Per me, che sono sarda e scrivo in italiano, è la Corea. Forse
ci andrò quando disperderanno le mie ceneri nell’oceano, a Busan. Nel
coreano cerco parole che nessuno ha mai usato contro di me, e che io non
ho mai usato contro nessuno».
Lei pensa e sogna in sardo?
«Certo. Non soltanto: penso in sardo e traduco in italiano; sono due
Michele diverse, una sarda e una italiana. Alla stessa domanda se penso
in italiano do una risposta, se penso in sardo un’altra. L’Italia e la
Sardegna sono due cose diverse. Per voi la Sardegna è l’isola delle
vacanze. Non vi rendete conto che c’è una base militare ogni 150
chilometri, perché d’estate interrompono i tiri per non disturbare i
turisti. L’altro giorno ero all’orto botanico, qui a Trastevere. La
persona che era con me è trasalita per il botto del cannone del
Gianicolo. Io no. Noi sardi siamo abituati ai rumori di guerra».
Però la Sardegna non è una colonia. È
Italia. Uno dei personaggi del suo libro è la donna di servizio di un
colonnello, che ha lavorato in un poligono in Sardegna, e dice che non è
vero che le morti per tumore in quella zona siano legate alle armi…
«Mi riferisco al poligono di Perdasdefogu, che viene affittato alle
potenze alleate: arrivano, pagano, sperimentano armi e tecnologie, se ne
vanno, e lasciano la loro scia di morte. Un magistrato coraggioso, il
procuratore Fiordalisi, ha fatto riesumare le salme del cimitero e ha
portato la Difesa e i vertici militari alla sbarra a rispondere di
salute pubblica. Ma la comunità vive di cose non dette. La base dà da
mangiare a tutti, ma non consente a nessuno di mangiare in modo
diverso».
Eppure lei affida al suo personaggio, la
donna di servizio, il ragionamento contrario. Anche a proposito della
sua critica al generale Figliuolo: «Una tipa in televisione ha detto che
la divisa del Generale le faceva paura. Centinaia di morti per il virus
e questa pazza…».
«La letteratura serve a ribaltare lo sguardo e in quel racconto la
pazza sono io. Lo rivendico. Il codice militare applicato a un’emergenza
civile è un rischio potente per una democrazia. Nel momento più
drammatico abbiamo affidato il governo a Draghi, un tecnico, e la
vaccinazione a Figliuolo, un militare. La politica in quel momento si è
arresa e ha ceduto il suo ruolo. La facilità con cui abbiamo sospeso le
libertà dovrebbe atterrirci».
Nel suo libro lei cita per nome un solo personaggio, oltre al cantante coreano Jimin: l’ex presidente Cossiga.
«Mi è sempre stato simpatico. Ricordo un faccia a faccia con Minoli,
che gli chiese: ma lei è massone? Cossiga rispose: no. Minoli lo
incalzò. E lui: “Erano massoni mio padre, mio zio, mio cugino, i miei
amici… Non avevo alcun bisogno di essere massone pure io”. È un po’
come me con il Premio Strega. Ho rifiutato il voto da giurata, ma Chiara
Valerio mi sfotte sempre: “Michela non ha un singolo voto, ne ha
diciassette…” (Michela Murgia sorride)».
Lei non scriveva un romanzo da otto anni.
«E anche questo libro sarebbe dovuto essere un pamphlet. Invano
Marcello Fois mi ripeteva che la letteratura cambia la vita più dei
saggi, che Proust ha cambiato il mondo più di Baumann. A me sembrava che
un saggio mi consentisse di scrivere più cose autentiche. Poi mi sono
resa conto che la letteratura mi permette di dire cose meno assertive;
anche cose contrarie a quelle che penso. La donna di servizio giustifica
la decisione del Colonnello di sottoporre il figlio malato di cancro a
un intervento chirurgico non necessario. Il bisturi come soluzione
militare. Radicale. E sbagliata».
Lei aveva già avuto il cancro.
«A un polmone. Tossivo. Feci un controllo. Era a uno stadio
precocissimo, lo riconoscemmo subito. Una botta di culo. Però ero in
campagna elettorale».
Si era candidata alla presidenza della Sardegna contro tutti i partiti, prese il 10 per cento.
«Quella volta non potei dire che ero malata. Gli avversari mi
avrebbero accusata di speculare sul dolore; i sostenitori non avrebbero
visto in me la forza che cercavano. Dovetti nascondere il male, farmi
operare altrove».
Questa volta come se n’è accorta?
«Non respiravo più. Mi hanno tolto cinque litri d’acqua dal polmone.
Stavolta il cancro era partito dal rene. Ma a causa del Covid avevo
trascurato i controlli».
Le tre ciotole che danno il titolo al
libro sono quelle in cui lei mangia, rigorosamente da sola, un pugno di
riso, qualche pezzetto di pesce o di pollo e qualche verdura. Soltanto
così ha smesso di vomitare. Un vomito che lei non collega alla malattia,
bensì a un abbandono. A una sofferenza d’amore. Anche questa è
autobiografia?
«La donna di quel racconto è poco autobiografica. Non sono mai stata
lasciata. Sono stata fortunata: ho sempre avuto amori felici, e persone
che si sono rivelate in gamba anche quando le ho lasciate. Il vomito
l’ho vissuto, ma legato alla mia ostensione pubblica, all’essere
diventata un bersaglio. Era la reazione per l’odio che ho avvertito nei
miei confronti. È cominciato quando ho visto per la prima volta il mio
nome sui muri, quando mi hanno insultata in coda al supermercato. È
finito quando ho capito che non dovevo lasciar entrare quell’odio dentro
di me».
Come lo spiega, quell’odio?
«Prima dell’arrivo di Elly Schlein mi sono trovata, con pochi altri
scrittori come Roberto Saviano, a supplire all’assenza della sinistra, a
difendere i diritti e le libertà nel dibattito pubblico».
Anche gli esponenti della destra sono odiati.
«Sì. Ma fa parte del mestiere di un leader politico. Salvini e
Meloni hanno dietro di sé un sistema di potere. Una macchina. Organi di
stampa. Persone che lavorano per loro. Muovono denaro, fanno nomine,
decidono carriere. Io nella discussione dovrei essere criticamente
terza; invece sono diventata controparte. Ed ero sola, con la forza
della mia voce. Mi dicevano: voi… Ma voi chi? “Voi del Pd”. Ma io non
ho mai votato Pd in vita mia».
In un altro capitolo lei racconta di tre ragazzi che uccidono un topo.
«Tre ragazzi che non erano mai stati picchiati dal padre; eppure
sanno benissimo come si fa. Io ho avuto un padre violento, come si fa
del male lo impari anche quando lo fanno a te».
Nel libro, il personaggio femminile
seppellisce il topo, ma il suo corpo spunta ancora fuori, e lei deve
saltarci sopra per pareggiare il terreno.
«Certe cose riaffiorano. Puoi occultarle, superarle, ma mai del tutto».
Nel capitolo finale la protagonista è
già morta, e la sorella appende alle querce da sughero i suoi vestiti,
affinché ogni persona cara possa portarne via uno…
«Quella scena c’è stata: nel giugno scorso ho compiuto cinquant’anni
e ho appeso alle querce cinquanta vestiti. In questo tempo ho avuto
modo di preparare tutto. Scrivere un alfabeto dell’addio. Predisporre un
percorso collettivo. Tanti dicono di voler morire all’improvviso, nel
sonno, senza accorgersene. Ora ho capito perché mia nonna da piccola mi
faceva recitare una preghiera contro la morte improvvisa».
Perché?
«Il dolore non si può cancellare; il trauma sì. Si può gestire. Hai
bisogno di tempo per abituare te stessa e le persone a te vicine al
transito. Un tempo per pensare come salutare chi ami, e come vorresti
che ti salutasse. Io non sono sola. Ho dieci persone. La mia queer
family».
Come tradurrebbe queer family?
«Un nucleo familiare atipico, in cui le relazioni contano più dei ruoli. Parole come compagno, figlio, fratello non bastano a spiegarla. Non ho mai creduto nella coppia, l’ho sempre considerata una relazione insufficiente. Lasciai un uomo dopo che mi disse che sognava di invecchiare con me in Svizzera in una villa sul lago. Una prospettiva tremenda».
CORRIERE.IT
Pages: 1 2