Quando l’America non fa più paura sono gli europei a rischiare tutto
Lucio Caracciolo
L’Italia ha un problema: l’America non fa più paura ai suoi nemici. A prima vista, problema americano. Lo è certo. Però è soprattutto affare nostro e di tutti i satelliti dell’informale impero a stelle e strisce configurato in Europa dalla Nato. Perché Russia e Cina non sembrano così pazze da attaccare frontalmente gli Stati Uniti – almeno per ora. Ma gli anelli più esposti della catena strategica a guida americana non sono al sicuro. È il caso dell’Ucraina oggi, potrebbe esserlo di Taiwan domani.
Nel primo caso, l’America ha stabilito di non voler fare esplicitamente la guerra alla Russia. Però il sostegno decisivo a Kiev assomiglia molto a quel che ha detto di non volere. Nel secondo, alleati e amici asiatici di Washington – tutti clienti economici della Cina – sono sempre meno certi della disponibilità americana a ingaggiare uno scontro fuori tutto con Pechino pur di difenderli. E si regolano di conseguenza. Armandosi. Per dirla con un alto ufficiale della Marina giapponese: ieri era il tempo dei delfini, oggi degli squali.
Se come afferma il generale John R. Allen, uno dei più influenti strateghi americani, la deterrenza americana “non sta funzionando”, chi ci garantisce in caso di aggressione? Perché è un fatto, scrive Allen nel prossimo volume di Limes (“Il bluff globale” in uscita il 13 maggio), che «i nostri avversari, principalmente Russia e Cina, non sembrano intimiditi né dalla prospettiva di subire una rappresaglia né dal rischio di non raggiungere i loro obiettivi, sicché entrambi hanno preso l’iniziativa nei nostri confronti».
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A forza di tracciare “linee rosse” con l’inchiostro simpatico, cui infatti nessuno fa caso, Washington ha messo in questione il crisma essenziale di qualsiasi potenza: la sua credibilità. Crisi anticipata nel 2004 da Sam Huntington, celebre teorico dello “scontro di civiltà”, intitolando “Who are we?” un suo saggio sulle faglie etniche e culturali dell’America. Ma se ti chiedi chi sei, se dubiti di te stesso, come fai a pensare che chi ti osserva, amico o nemico, non dubiti di te? Se poi al rompighiaccio Huntington seguono vent’anni di americanissima letteratura dell’orrore sul declino a stelle e strisce, l’impressione che il Numero Uno sia sfidabile diventa senso comune.
E’ avviata una transizione egemonica in cui i dogmi del “mondo basato sulle regole”, ovvero della globalizzazione promossa dalla “superpotenza unica”, non sono più applicabili. O lo sono a spese dell’America. Tesi affermata dalla stessa amministrazione Biden. Il consigliere per la Sicurezza nazionale, Jake Sullivan, l’ha stabilito il 27 aprile. Finita l’epoca in cui a Washington si giurava che “l’integrazione economica avrebbe reso le nazioni più responsabili e aperte e l’ordine globale più pacifico e cooperativo. Non è andata così”. Si delineano nuove ricette geoeconomiche – tra cui forti dosi di capitalismo di Stato – e insieme una revisione strategica che impone agli Usa di limitare l’esorbitante impegno nel mondo per dedicarsi a lenire le ferite di casa. Quella che tre anni fa Sullivan già aveva battezzato “geopolitica per la classe media”. Non-geopolitica, in chiaro.
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