Per una nuova comunicazione della scienza
Gianni Canova e Marco Montorsi |
Caro direttore, il mondo dell’informazione «disintermediata» è un mondo nel quale è venuta meno la tradizionale articolazione del principio di autorità. Non c’è pulpito che non sia stato messo in crisi dall’incalzare di una comunicazione «bottom up», in un contesto in cui i mezzi di comunicazione di massa sono attraversati da una rivoluzione permanente e chiunque può generare contenuti nuovi. Anche se è forte la tentazione di sfiorare le corde del rimpianto, bisogna sapere che ci sono opportunità straordinarie: se qualcuno ha qualcosa da dire, se ha competenze e la capacità di comunicarle in modo semplice ed efficace (che non è un dono innato ma il frutto di un sapiente allenamento), oggi può cercare un pubblico con relativa facilità. Ma ci sono anche pericoli altrettanto straordinari. Questo è tanto più vero quanto più ci avviciniamo a temi e questioni d’immediato interesse della persona. La salute, per esempio.
La relazione fra medico e paziente, ispirata per lungo tempo a un modello unilaterale , si è profondamente modificata negli ultimi anni richiedendo al personale sanitario di utilizzare – e a volte apprendere – un nuovo modello comunicativo, più interattivo ma comunque sempre improntato a superare una netta asimmetria informativa. Nel momento in cui va in crisi il principio di autorità medesimo, però, i depositari di conoscenze altamente specializzate non necessariamente fanno storia a sé. Il medico è sollecitato a comunicare non solo col paziente, ma in generale con l’opinione pubblica, a condividere con essa informazioni e conoscenza. E tuttavia, nel momento in cui apre un account social, uno vale uno: anche lui, a prescindere dal suo bagaglio di conoscenze tecniche e specialistiche.
L’esperienza della pandemia non va dimenticata. È stata, sul piano della comunicazione, un’esperienza contraddittoria. La presenza pervasiva dei social porta con sé il rischio di informazioni non filtrate e non selezionate, «fake news», che se possiamo riportare alla categoria del pittoresco quando si tratta di terrapiattismo o cospirazioni rettiliane, diventano problemi sociali quando riguardano, per esempio, terapie non vagliate scientificamente o «sperimentazioni» proposte senza che abbiano avuto riscontro sperimentale, empirico, regolatorio. Dall’altra, l’emergenza sanitaria ha reso mediaticamente spendibile, per una volta, scienze che nel nostro Paese sono tradizionalmente ai margini dei grandi circuiti dell’informazione, come ad esempio infettivologia, immunologia ed epidemiologia. Proprio per questo tali circuiti sono privi del vocabolario necessario per discuterne in modo ponderato e finiscono per fare la cosa più semplice, economica e pericolosa: farne materiale da talk show. Riducendo cioè le conoscenze specifiche dell’esperto, del clinico, dello scienziato al livello di opinione non supportata da dati. Quando l’opinione pubblica ha cercato visioni autorevoli, in un momento di grande tensione e pericolo, quell’autorità è stata di nuovo minata alla radice.
Sono queste le ragioni che hanno portato i nostri atenei e noi per primi a ragionare su una collaborazione sul terreno della comunicazione della scienza e della medicina. I saperi scientifici sono un serbatoio di conoscenze ineludibile per capire l’oggi e costruire il domani. La partecipazione di medici e scienziati al dibattito pubblico è necessaria, anche se non siamo sotto scacco di una malattia emergente, ma richiede conoscenze delle logiche dei media e consapevolezza dell’impatto che le dichiarazioni pubbliche possono avere. I professionisti dell’informazione e comunicazione debbono, simmetricamente, conoscere e frequentare il metodo scientifico, anche per imparare a non ridurre l’informazione scientifica a istogrammi e infografiche, a numeri la cui potenza retorica supera oggi quella di qualsiasi parola ma rischia di produrre più fraintendimenti che informazione. A non scambiare, insomma, la scienza (che è un metodo) per l’idolatria del dato decontestualizzato.
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