Il fantasma presidenziale che si aggira per l’Italia
Dunque ci risiamo. Il fantasma “presidenzialista” è di nuovo tra noi, come è già successo almeno altre quattro volte nell’eterna transizione italiana. Dopo le fumose Commissioni demitiane del ‘90 e le avventurose Bicamerali dalemiane del ‘98, i pastrocchi cesaristi di Berlusconi nel 2005 e i sogni medicei di Renzi nel 2016, adesso è Giorgia Meloni a riaprire il solito, sconclusionato e velleitario “cantiere delle riforme” (che dalle nostre parti ricorda la Sagrada Familia di Gaudì, ma senza averne ovviamente la sontuosa maestà). È un investimento politico che non può farle lucrare dividendi immediati. Non c’è il tempo né il modo per chiudere in fretta un accordo con le opposizioni, né per imporre alle Camere un testo di legge fatto e finito.
Ma con questa mossa la Sorella d’Italia costruisce la sovrastruttura ideale che le consente di attraversare dall’alto l’intera legislatura, dando un orizzonte e un senso compiuto alle tre fasi sulle quali sta strutturando il nucleo duro del suo “governo personale” dentro il “governo nazionale”. Come ha scritto Lucia Annunziata: il controllo totale dell’economia attraverso i vertici delle cinque grandi aziende controllate da Tesoro (alle quali ora si aggiunge anche la Rai e perfino l’Inps e l’Inail), la gestione diretta dei fondi del Pnrr attraverso la “Struttura di missione” trasferita a Palazzo Chigi, l’Opa sul ceto medio attraverso l’appropriazione della Festa del Primo Maggio, celebrata contrapponendo simbolicamente “il governo che lavora” al “sindacato che manifesta”. Ora, a inverare e a dare forma “sistemica” a queste singole tappe del percorso di consolidamento della leadership meloniana, si aggiunge il “presidenzialismo”.
Qualunque cosa significhi, perché ancora non sappiamo se nella versione della nuova destra post-missina questa forma di governo di cui il Belpaese discute da decenni penda più verso il modello americano, quello francese o quello tedesco. O se invece non scivoli, com’è probabile e com’è sempre accaduto finora, verso un patchwork tutto italiano, studiato e cucito a misura del Capo di turno e della maggioranza del momento. Diciamolo subito, a scanso di equivoci: la presidente del Consiglio ha pieno diritto di indicare al Paese un suo disegno riformatore, e di metterlo all’ordine del giorno del confronto politico. Almeno in questo, c’è coerenza rispetto alle promesse dei “Patrioti”. Lo aveva detto lei stessa, nel suo discorso programmatico per la fiducia parlamentare.
Conviene rileggere quel passaggio, scandito in aula il 25 ottobre: «Siamo fermamente convinti del fatto che l’Italia ha bisogno di una riforma costituzionale in senso presidenziale, che garantisca stabilità e restituisca centralità alla sovranità popolare. Una riforma che consenta di passare da una “democrazia interloquente” a una “democrazia decidente”. Vogliamo partire dall’ipotesi del semipresidenzialismo sul modello francese, che in passato aveva ottenuto un ampio gradimento anche da parte del centrosinistra, ma rimaniamo aperti anche ad altre soluzioni. Vogliamo confrontarci su questo con tutte le forze politiche presenti in Parlamento, per giungere alla riforma migliore e più condivisa possibile. Ma sia chiaro che non rinunceremo a riformare l’Italia di fronte a opposizioni pregiudiziali. In quel caso ci muoveremo secondo il mandato che ci è stato conferito su questo tema dagli italiani: dare all’Italia un sistema istituzionale nel quale chi vince governa per cinque anni e alla fine viene giudicato dagli elettori per quello che è riuscito a fare». Questo preambolo meloniano, sul quale presumibilmente si concentrerà il primo incontro di dopodomani con il Pd di Elly Schlein, pone alla politica e al Paese due grandi questioni.
Partiamo dalla prima questione: il merito. Con buona pace della ministra Casellati, l’era delle ambigue fumisterie è finita. La maggioranza dica con chiarezza qual è la forma di governo che ha in mente, se davvero ne ha una. Si può eleggere direttamente un presidente di uno Stato Federale bilanciato da un Congresso forte e da una Corte Suprema ancora più forte, come avviene negli Stati Uniti. Oppure si può eleggere direttamente un presidente della Repubblica che tuttavia “coabita” con un capo del governo, come fanno in Francia. Si può scegliere un Cancelliere, che convive con un due Camere essenziali a partire da quella che rappresenta i Länder, come si fa da decenni la Germania. Oppure si può votare direttamente un presidente del Consiglio, immaginando di rafforzare i suoi poteri molto più di quanto non è accaduto finora. Ognuno di questi sistemi ha caratteristiche radicalmente diverse, come insegnava Giovanni Sartori. Quale può adattarsi meglio a una realtà come quella italiana, a prescindere dagli equilibri politici di questa fase?
È questa la domanda cruciale alla quale dovrebbe rispondere Meloni. È chiaro, e non da oggi, che in Italia la macchina delle istituzioni gira a vuoto. Le coalizioni faticano, i governi traballano, il Parlamento è poco più che un votificio. Ci salvano solo gli organi di garanzia, Quirinale e Consulta. E qui le colpe sono bipartisan, visto che la sinistra, quanto a mancata volontà riformatrice e ri-costituente, non è meno responsabile della destra. Per questo è giusto pensare finalmente a una seria e buona riforma. Ma cos’è una riforma costituzionale “che garantisca stabilità e restituisca centralità alla sovranità popolare”? Che significa passare da una “democrazia interloquente” a una “democrazia decidente”? In queste vaghe parole della Presidente risuona solo l’eco di una certa “volontà di potenza” che fu già del Cavaliere.
Se guardiamo alla pratica, possiamo dire che la svolta presidenzialista è quanto meno inattuale. Parafrasando Groucho Marx: il presidenzialismo è morto (come dimostra il mezzo golpe a Capitol Hill degli sciamani di Trump), il semipresidenzialismo è quasi morto (come testimonia la vandea previdenziale che nelle piazze e nell’Assemblée Nationale sta schiantando Macron), e anche il cancellierato non si sente molto bene (come conferma l’intensità delle proteste sociali che anche nel Bundestag zavorrano Scholz). Se guardiamo alla teoria, ognuna delle ipotesi in campo può dare “stabilità”: presidenzialismo, semipresidenzialismo, premierato inglese, cancellierato tedesco. Ma intanto bisogna scegliere, perché “chi non distingue, pasticcia” (ancora Sartori). E poi quel risultato si raggiunge solo grazie a due presupposti irrinunciabili: un assetto costituzionale-istituzionale-elettorale coerente, un meccanismo di check and balance efficiente. Su questo, nulla sappiamo della Dottrina dell’italica fratellanza. Ed è un dramma. Perché trasformare in presidenziale una democrazia parlamentare, senza un adeguato bilanciamento dei poteri e un collaudato sistema elettorale, mette a repentaglio la stessa democrazia. Facciamo due esempi.
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