Il Re di Arcore non abdica

Flavia Perina

Straniante sovrapposizione di immagini sull’asse Londra – Roma. Lì le immagini di un nuovo re intronato grazie a ferree regole dinastiche. Qui il ritorno in scena di un re anziano, malato, da un mese in ospedale, che però non pensa neanche per idea alla successione e si impegna nella fatica di un discorso di venti minuti per rassicurare la convention di Forza Italia e dirgli: sono tornato, sono pronto a combattere con voi. Il rito cantato trionfa a entrambe le latitudini. Ovviamente sontuoso a Westminster, con lo sfoggio di ermellini e carrozze d’oro dettato dalla consuetudine. Assai più sobrio al San Raffaele, ma anche lì con gli ingredienti della tradizione della casa di Arcore: la scrivania, la bandiera, i libri, il trucco cinematografico che il Cavaliere usa fin da giovane, quando di rughe ne aveva assai meno, gli slogan del mito forzista che chiamavano ovazioni nei grandi raduni di una volta, quelle strabocchevoli platee di San Giovanni, di piazza del Duomo, di piazza Plebiscito, dove Silvio faticava a pronunciare i discorsi per lo scrosciare degli applausi.

Stavolta è diverso. Il primo battimano arriva al minuto dieci del video, con la citazione dell’incoraggiamento di mamma Rosa alla discesa in campo. E il successivo alla ripetizione della frase con cui nel 1994 annunciò il suo ingresso in politica: l’Italia è il Paese che amo. Ce ne saranno appena altri tre o quattro, ed è immaginabile che la platea sia più attenta a decifrare le vere condizioni di salute del capo, i motivi dei suoi singulti, la causa dei due terribili momenti in cui l’aria sembra mancargli, che ad ascoltare i contenuti del suo messaggio. Vogliono sapere se e quanto sta bene, se e quanto ce la potrà fare, e soprattutto vorrebbero capire se le sue parole nascondano sottotesti su una successione di cui tutti parlano, che a tutti appare inevitabile ma non arriva mai.

Beh, quei sottotesti non ci sono. Se i monarchi veri, quelli con la corona che strabordano dalle immagini da Londra, sono inchiodati alle regole della primogenitura (tutto facile per loro), il sovrano dei moderati italiani ha libertà di scelta e rifiuta ancora di poggiare la spada sulla spalla di uno dei suoi capitani. Anzi, non li cita proprio. Nessuno. I ringraziamenti alla classe dirigente sono tutti generici e plurali: «i coordinatori», «i capigruppo», «i parlamentari», i «dirigenti». Hai visto mai che qualcuno se ne ammanti per acciuffare il ruolo di erede designato. L’unico nome pronunciato fuori dal Pantheon dei fondatori, i Martino, i Badget Bozzo, gli Urbani, è quello della regina consorte, la «cara Marta». E anche questo dettaglio aiuta a capire la vera natura del rito a cui abbiamo assistito. Non è l’estremo sforzo di un re provato dall’età e dalla malattia, il preludio di un passaggio di testimone, l’atto conclusivo di una incredibile carriera, ma la re-incoronazione di un monarca convinto di non poter essere sostituito, di avere ancora un pezzo di storia da scrivere e da interpretare.

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