Diritto di famiglia
Per capire perché non si tratta di inserire surrettiziamente in Italia una pratica vietata – come vuole far credere a propaganda della maggioranza – ma di discriminazione nei confronti delle famiglie omosessuali, basta analizzare la realtà. A gennaio il Viminale ha chiesto a tutti i comuni del Paese di non trascrivere automaticamente i certificati di nascita di figli nati all’estero con la gestazione per altri, perché – secondo una recente sentenza della Cassazione – «la pratica offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane». Qualche settimana dopo la prefettura di Milano ha deciso di estendere la richiesta anche nei confronti di coppie di donne che hanno fatto ricorso alla fecondazione eterologa all’estero, chiedendo che la madre non biologica non sia inserita nei documenti. In questo caso, non c’è nessuna gestazione per altri o “utero in affitto”, e quindi il bluff si scopre facilmente. Tanto che tutte queste prescrizioni non valgono per le coppie eterosessuali – sono oltre l’80 per cento di chi fa ricorso alla gestazione per altri – che vanno all’estero per avere un figlio e lo registrano regolarmente senza che nessuno vada a chiedere loro com’è stato generato. O per tutti quegli uomini e quelle donne che devono fare ricorso all’eterologa per problemi di vario tipo e che poi regolarmente registrano i loro figli senza che nessuno possa contestarlo.
Il problema, quindi, è il diritto di due omosessuali ad avere una famiglia. Il Parlamento ha evitato accuratamente di occuparsene come fa spesso con le cose che riguardano la carne viva delle persone, ad esempio il fine vita. Dopo il fallimento della stepchild adoption nelle Unioni civili c’era stata la promessa di mettere subito mano alla legge sulle adozioni: accelerando e facilitando quelle speciali, nei casi di coppie omosessuali, il problema avrebbe potuto essere tamponato. Non si è fatto. E in più, il governo di Giorgia Meloni ha deciso di agire con una circolare per fermare quel che alcuni comuni, più vicini alle esigenze delle singole famiglie, dei singoli bambini, stavano facendo da anni: trascrivere nei registri i loro atti di nascita con i nomi di entrambi i genitori, per definirne i doveri, oltre che per dare ai figli tutti i diritti.
Chiunque abbia figli e debba fare un passaporto, firmare un permesso per una gita, prendere una decisione importante in un pronto soccorso, sa che cosa significhi essere padre o madre per la legge, oltre che nell’anima. I bambini possono uscire dal proprio Paese solo con il genitore legittimo. Se c’è un intervento urgente da fare e un permesso da dare all’ospedale, solo il padre o la madre “legali” possono agire. Se ci sono beni da ereditare da parte della famiglia del genitore non biologico, quel figlio resterà escluso. E fin qui, le ragioni pratiche. Ma ce n’è un’altra non meno importante: nessun bambino può essere discriminato per il modo in cui è venuto al mondo. Lo dicono le convenzioni internazionali, lo affermano le norme europee e non a caso la commissione von der Leyen a dicembre scorso ha emanato un regolamento secondo cui se una famiglia omogenitoriale è riconosciuta per legge almeno in uno Stato membro deve esserlo in tutti gli altri. Ursula von der Leyen ha spiegato personalmente questa decisione. La ritiene saggia, equilibrata, necessaria. È una donna di centrodestra che pensa al bene della collettività, seguendo uno dei valori fondativi dell’Europa: non discriminare nessuno. Allargare la sfera dei diritti, non comprimerla. Basterebbero un po’ di saggezza e meno ideologia, per arrivare fin lì. E riportare questo Paese nel presente.
LA STAMPA
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