Natura e tecnica: ostaggi al telefono con nessuno
Anche se negli ultimi tempi le cose sono un po’ diverse (ma non poi così tanto), nei decenni che ci stanno alle spalle abbiamo assistito a mutamenti delle nostre società così continui e sostanziali, così benefici e duraturi — perlopiù frutto congiunto dell’affermazione della democrazia e delle conquiste tecnico-scientifiche — da lasciare nella mentalità di noi tutti un’impronta duratura e fortissima. Ne siamo usciti quelli che siamo oggi: degli invincibili progressisti. Progressisti per sempre.
Progressisti perché convinti, ad esempio, che la sola idea di opporsi al cambiamento, di voler conservare, siano idee sostanzialmente insensate (oltre che reazionarie, «di destra»). In particolare ci appare insensata l’idea che si possa rifiutare una qualunque cosa si presenti come il frutto del progresso tecno-scientifico: anche se oggi tale progresso sembra sul punto di prendere (o ha già preso) un orientamento significativamente diverso da quello precedente. Passando cioè da un progresso volto a rafforzare e ampliare le capacità umane (per dire: dalle capacità del sistema immunitario a quelle di calcolo) a un progresso in cui invece la tecno-scienza mira di fatto a sostituire tali capacità, a surrogarle (l’ingegneria genetica e l’intelligenza artificiale sono solo i due casi più clamorosi). Con il risultato, in prospettiva, di un vero e proprio superamento di quello che si potrebbe chiamare l’umano «naturale» a pro di un umano post-naturale, «artificiale».
Ma se le cose stanno così è evidente che anche il significato ideologico e quindi politico del concetto di conservare è destinato a mutare. In che senso secondo l’antico vocabolario può ancora considerarsi «conservatore» e «di destra», ad esempio, vietare ogni ricerca sulla clonazione umana o sulla sostituzione dell’utero con una macchina (due traguardi oggi tecnicamente non così lontani)? Non stiamo forse assistendo, insomma, all’inizio di un radicale mutamento di senso delle categorie che finora abbiamo forse troppo disinvoltamente adoperate nell’arena politica? In che senso avrebbe ancora a che fare con la «destra» tradizionalmente intesa un partito che ad esempio si proponesse di opporsi a quello che non saprei definire altrimenti che come uno «snaturamento della vita», della vita individuale come della vita sociale, promosso dal combinato disposto di progresso tecnico e interessi economici?
Faccio solo un esempio, all’apparenza di portata assai limitata ma che è indicativo di che cosa voglia dire il combinato suddetto nell’esistenza quotidiana di ciascuno di noi.
Per una fattura sbagliata, per protestare contro qualsiasi disservizio, per chiedere un’informazione, per un corriere che non ci ha trovato a casa, per prenotare ormai qualsiasi cosa, per parlare con qualsiasi ufficio, telefoniamo a un centralino. E qui comincia una vera odissea. Quello che ci risponde immediatamente è un disco. Il quale ci prospetta quattro o cinque opzioni da digitare, poi di seguito ancora una volta altre quattro o cinque, e magari la stessa cosa un’altra volta ancora. Se capiamo bene e siamo così bravi e pronti da scegliere sempre l’opzione giusta inizia regolarmente un’attesa snervante di tre, cinque, dieci minuti, un tempo potenzialmente illimitato durante il quale un disco ci ripete di continuo che «il primo operatore libero ecc. ecc…»; finché a un certo punto, novantanove volte su cento, con l’aria di farci un piacere saremo invitati «per non prolungare l’attesa…» ad andare sul sito «www.vattelapesca» e da lì proseguire il nostro viaggio verso il nulla.
Nel nostro quotidiano rapporto con il mondo è sempre più raro, insomma, che ci sia una voce umana che ci ascolti quando dobbiamo avanzare una protesta o una richiesta. Il progresso e insieme l’ovvio interesse economico di non ricorrere a degli operatori in carne ed ossa ci sottrae ogni possibile interlocutore reale. Al suo posto ci viene imposto di rivolgerci a una macchina, di parlare al suo silenzioso fruscio, di cancellare dalle parole che pronunciamo ogni tratto personale, emotivo, nostro: di «stare ai fatti!» e basta. Sapendo peraltro di non poterci attendere alcuna risposta, costretti ad affidare l’esito di quanto stiamo dicendo a una entità imperscrutabile che non possiamo sapere se, quando, e come, prenderà in esame quella che di fatto assomiglia più che altro a una disperata supplica.
Pages: 1 2