Hanno tutti ragione | Armocromia grillina, i nuovi colori di Conte per l’abbinamento con Meloni

di Stefano Cappellini

Giuseppe Conte ha un problema con il Pd, e viceversa. Dice: ma a che serve parlare di alleanze ora? Nel 2024 alle Europee si vota con il proporzionale, ognun per sé. Vero. Si può far finta di niente. La risoluzione delle grane può essere rinviata, in politica come nella vita, ma non sempre il tempo offre una scappatoia.  

È evidente che Conte non ha gioito per l’elezione di Elly Schlein alla segreteria. Si sentiva già incoronato capo dell’opposizione. Nei mesi in cui il Pd era rimasto acefalo i sondaggi suggerivano il sorpasso dei 5S sui dem, e l’arrivo di Schlein ha invertito la tendenza. Non solo, ora Conte teme che Schlein possa recuperare definitivamente parte di quei voti di sinistra che negli ultimi anni sono stati tesoretto elettorale dei grillini. Il risultato è evidente: Conte ha già mezzo svestito i panni di Mélenchon italiano, che avrebbe certo tenuto in caso di vittoria di Stefano Bonaccini alle primarie dem, e ha cominciato un’altra partita: da un lato, non perde occasione di mettere Schlein sotto tiro, ha ritenuto anche di mettere subito a verbale che per lui non ci sono le condizioni di un “accordo strutturale” con il Pd, dall’altro ha aperto trattative ovunque possibile con la maggioranza, come dimostrano il voto del Parlamento sui membri del consiglio di giustizia tributaria, Conte ha ottenuto un incarico per l’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede, e soprattutto la partita Rai.  

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Una spericolatezza tipicamente contiana, accreditarsi unica vera opposizione e al contempo dare sponda a Meloni sui singoli dossier, pochette e barricata, Cortina d’Ampezzo e cortina di ferro, atlantista e antimperialista, antifascista e pubblico lodatore della lettera di Meloni sul 25 aprile nella quale l’antifascismo non è nemmeno nominato. Dopo aver capito che il mercato elettorale a sinistra rischia di restringersi, l’ex presidente del Consiglio sembra a caccia di nuovi spazi, lui che ne ha già occupati molti. Non vuole correre il rischio di essere fagocitato dal Pd, prospettiva che ritiene, forse non a torto, molto probabile in caso di alleanza. La tesi secondo cui il rapporto tra Conte e Meloni potrebbe evolversi in qualcosa più che un asse sotterraneo è inverosimile, nessuno dei due ha interesse ad andare oltre. Quale sia invece il tornaconto reciproco di questa interlocuzione è chiaro per il leader M5S ed è chiaro anche per la presidente del Consiglio: un Conte che marcia lontano da intese con i dem è la garanzia che all’opposizione non prenda mai forma una proposta alternativa e competitiva rispetto alla maggioranza attuale. 

Questo, però, obbliga il Pd a porsi delle domande e soprattutto a trovare presto risposte. Il rapporto con il M5S è sempre stato ambiguo anche visto dal lato dei dem, che hanno cercato opportunisticamente di trasformare la nascita del Conte bis nella fondazione di un improbabile nuovo campo progressista. Fondazione alla quale hanno fatto finta di credere in molti, spinti più che altro dall’idea di normalizzare l’anomalia grillina e prosciugarne i voti. Non ha funzionato. La finzione ha retto finché Conte ne guadagnava il ruolo di leader, perso il quale ha abbandonato le velleità da federatore prodiano.

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