La battaglia per la libertà di chi muore anche per noi

MASSIMO GIANNINI

Un ramoscello d’ulivo scolpito è il vero simbolo che resta, alla fine del veloce sabato romano di Volodymyr Zelensky. È il regalo che Francesco fa al presidente ucraino, ed è il dono che solo un Papa argentino può consegnare a un mondo perso a giocare a dadi con l’Apocalisse. Se la pace ha davvero una chance, è in buona parte nelle mani del Vescovo di Roma. L’unico che non ha mai smesso di evocarla, mentre i cosiddetti “Grandi del Pianeta” parlavano d’altro, in questi quindici mesi d’inferno tra Bucha e Bakhmut. Forse l’unico che potrebbe essere ascoltato in Russia, perché capo di una “superpotenza post-occidentale”, palesemente poco affezionata all’Europa ma certamente dotata di visione strategica su tutti i dossier dei due emisferi, dall’Africa al Sud America. Ma anche l’unico che per ora Zelensky non può e non vuole ascoltare. Lo dice chiaro, dopo gli incontri al Quirinale, a Palazzo Chigi e in Vaticano: c’è solo una pace possibile, ed è quella che decideremo noi, vittime incolpevoli dell’aggressione russa.

Così quel ramoscello d’ulivo sembra già inaridito, perché per ora non c’è una terra in cui si possa piantare. Quella terra non è l’Ucraina, o almeno non lo è adesso, perché come annuncia il suo leader “noi prepareremo il nostro piano di pace”, ma intanto “combatteremo e fino a quando non saremo arrivati al confine con la Crimea”, e allora Putin capirà che per lui è finita, perché avrà perso il sostegno interno dei suoi apparati e della sua gente. La guerra continuerà “fino ad allora”, anche se nessuno può sapere quando arriverà questo “allora”. Nel frattempo, partirà l’annunciata controffensiva di Kiev, perché con il macellaio di Mosca non c’è trattativa possibile.

“Di che dobbiamo parlare, con uno che massacra i nostri figli?”, chiede il presidente ucraino, che invoca solo “una pace giusta”, la sua, e non si accontenta “dei territori”, ma chiede anche giustizia, cioè un tribunale internazionale che giudichi e condanni i crimini di Putin.

Suscita un’emozione forte, sentir parlare questo eroe per caso che nel giro di pochi anni, da attore comico televisivo, si è ritrovato a gestire il governo della sua nazione e poi a guidare il suo popolo in un conflitto contro un nemico immensamente più feroce e potente di lui. E fa effetto sentirgli dire “noi combattiamo per i valori che sono anche i vostri”, e sentirgli ripetere “siamo grati all’Italia perché, come voi, stiamo dalla parte giusta, quella della verità” e per questo “noi vogliamo entrare nella Nato e nell’Ue”. Ma la geopolitica purtroppo non si nutre di emozioni, per dirla con Lucio Caracciolo, ma obbliga a “entrare nelle scarpe di tutti i contendenti, anche di chi si avverte profondamente avverso, se davvero si intende cogliere i perché di una guerra”. Per questo, mentre Zelensky vola a Berlino seguendo le tappe del suo tour europeo, ci rendiamo conto di quanto lo scenario sia ancora fosco e tetro per chi invece spera in uno spiraglio di pace.

Il ramoscello d’ulivo che non trova terreno fertile lungo il corso del Dnepr, infatti, al momento non sembra trovarlo neanche Oltre Tevere. La mediazione papale ha azzardato i suoi primi passi, annunciata dallo stesso Bergoglio, convinto che parlare “con l’aggressore è necessario”, anche se a volte “il dialogo puzza”. Non sappiamo con esattezza cos’abbia risposto Zelensky al Santo Padre, né cosa si siano detti nel colloquio successivo con il segretario di Stato vaticano. Sappiamo però che il commander in chief ucraino ripete “non ci servono mediatori”, ma “piani d’azione” per una pace giusta. Può darsi che quei piani d’azione fossero scritti nella cartellina che monsignor Gallagher teneva sottobraccio, ma per ora non ne abbiamo contezza.

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