Riforma costituzionale, un confronto senza ipocrisie
Riusciranno a sorprenderci o sarà un deprimente déjà vu? Come era prevedibile, il confronto sul tema della riforma costituzionale è partito con il piede sbagliato. Proponendo «soluzioni»(presidenzialismo, premierato, elezione diretta del premier, eccetera), senza spiegare — perché sarebbe politicamente troppo costoso, come vedremo — quale sia il problema che ci si propone di risolvere. Se si continua così, finirà con una divisione acuta fra quelli che raccontano all’opinione pubblica che il presidenzialismo sia sinonimo di decisionismo (e non lo è, anche se è dai tempi di Bettino Craxi che l’equivoco viene alimentato) e quelli che si travestiranno da partigiani, cantando Bella ciao, e marciando in difesa della «costituzione nata dalla resistenza». Nessuno ha la sfera di cristallo ma, a occhio e croce, le probabilità che per questa strada si possano fare serie riforme costituzionali sembrano più o meno le stesse che ha il ponte sullo stretto di Messina di essere prima o poi finito e inaugurato: vicine allo zero. Che le forze politiche usino il tema costituzionale per farsi propaganda, per blandire i vari settori di un’opinione pubblica al tempo stesso divisa e disorientata, non deve stupire né scandalizzare: è la democrazia, bellezza. Ma certo sarebbe un bel passo avanti se, anziché dalle formule, si partisse dalla identificazione del problema.
Servirebbe quanto meno a snidare i gruppi, le forze, che avrebbero più da perdere da una seria riforma costituzionale. Bisognerebbe uscire dalla genericità: dire che si tratta di mettere fine alla endemica instabilità dei governi (la grande piaga della Repubblica italiana fin dalla sua nascita) non è sufficiente. Occorre andare alla radice del problema. Solo in questo modo si possono individuare i rimedi più efficaci.
Per isolare il problema conviene partire da tre domande. La prima: come mai le uniche due rilevanti riforme costituzionali che la Repubblica abbia conosciuto, quella del titolo Quinto (sui rapporti fra centro e periferia) e la riduzione del numero dei parlamentari, non incontrarono forti resistenze? La risposta è che entrambe le riforme andavano nella direzione — che, per ragioni diverse, piaceva a tanti — dell’ulteriore indebolimento di un «centro politico» (governo e Parlamento), già di per sé tradizionalmente debole. La seconda domanda: perché quella tentata da Matteo Renzi e bocciata da un referendum popolare nel 2016 era una buona riforma? La risposta è che, anche se non prevedeva elezioni dirette del presidente o del premier, proponendo di superare sia il bicameralismo simmetrico (due camere con uguali poteri) sia il titolo Quinto, avrebbe rafforzato, indirettamente ma sicuramente, la forza del governo centrale. La terza domanda: perché quel progetto suscitò l’opposizione di un gran numero di gruppi fra loro eterogenei (qualcuno ricorderà, ad esempio, che Magistratura democratica prese pubblicamente posizione contro)? La risposta è che in Italia ci sono molti gruppi che temono un rafforzamento del governo perché ciò indebolirebbe i loro poteri di veto sulle politiche e sulle decisioni pubbliche.
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