Riforma costituzionale, un confronto senza ipocrisie

Per note ragioni storiche che è inutile qui richiamare, la Costituzione venne costruita in modo da favorire la formazione di governi deboli, un sistema istituzionale non già di «pesi e contrappesi» ma di contrappesi senza pesi, ove era più facile bloccare l’azione dei governi che governare. Per questo ci furono democratici (come Gaetano Salvemini) che la criticarono subito duramente.

L’instabilità e l’inefficienza governativa che ne derivarono furono a lungo bilanciate dall’esistenza di un partito dominante, la Democrazia cristiana e, più in generale, di un forte e radicato sistema dei partiti. La formula della (cosiddetta) Prima Repubblica si reggeva su una combinazione di istituzioni di governo deboli e di partiti forti. Finita quell’epoca, ci siamo ritrovati con le stesse istituzioni di governo deboli ma anche con partiti senza più la solidità e la forza di un tempo. L’indebolimento della politica rappresentativa ha portato con sé il simmetrico rafforzamento delle posizioni di apparati (vertici amministrativi, magistrature di ogni ordine e tipo) con un potere di interdizione e di veto che, stando nell’ombra, lontano dai riflettori, possono esercitare ed esercitano ogni giorno a scapito della suddetta politica rappresentativa. Ma se questo è il vero problema, allora si tratta di capire quali soluzioni siano le più idonee per riequilibrare il rapporto fra politica rappresentativa e i gruppi la cui forza è alimentata dalla debolezza della prima. Per lo meno, bisognerebbe far emergere, all’interno della maggioranza di governo come nelle fila dell’opposizione, la divisione fra chi vorrebbe davvero rafforzare la politica rappresentativa e chi è invece sensibile alle pressioni e alle lusinghe degli interessi alimentati dai numerosi e ormai radicatissimi poteri di veto. Sugli aspetti di «contenuto» in tema di modifica della forma di governo, vale forse la pena, in questa fase, fare una sola osservazione. Così come si rivelò alla fine perdente il tentativo di riformarla partendo dal cambiamento della legge elettorale agli inizi degli anni Novanta (nella speranza, rivelatasi infondata, che quel cambiamento avrebbe imposto una conseguente riforma costituzionale), significa commettere l’errore opposto proporre di cambiare la forma di governo senza contemporaneamente progettare una modifica della legge elettorale. O le due cose procedono insieme o si resterà fermi al palo.

Concludo osservando che l’unica credibile difesa dello status quo costituzionale di cui chi scrive abbia conoscenza si deve a Giuliano Ferrara. Per il quale il nostro assetto istituzionale, alimentando il trasformismo, ha garantito nel tempo alla democrazia italiana la flessibilità necessaria per assorbire ogni genere di pressione. Ha sorretto l’unico sistema di governo, quello trasformistico appunto, che si poteva e si può permettere una società divisa e polarizzata. C’è molto di vero. Però il prezzo è stato ed è assai elevato. È a quel sistema di governo che dobbiamo il fatto di avere caricato sulle spalle delle generazioni future il fardello di un grande debito pubblico. O, per venire a cose assai attuali, è tale sistema di governo che, facilmente, ci porterà a sprecare, o a sprecare in gran parte, la grande occasione rappresentata da quella specie di Piano Marshall che sono i fondi del Pnrr. Confrontando costi e ricavi, svantaggi e vantaggi, non c’è di che rallegrarsi.

CORRIERE.IT

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