Turchia, l’identità batte la ragione

Naturalmente, il dado non è tratto. Toccherà aspettare il 28 maggio per sapere come andrà a finire. Ma per l’opposizione la via è in salita. Se Erdoğan dovesse vincere le elezioni ed entrare così nel suo terzo decennio al potere per certi versi tutto cambierebbe; mentre, per altri, non cambierebbe nulla. Non cambierebbero i rapporti con l’Unione europea, gli Stati Uniti, così come con la Russia, la Cina o le potenze mediorientali (con le quali cambi di passo importanti, ad esempio nei rapporti con i Paesi del Golfo e l’Egitto, sono già in corso). Con l’Europa permarrebbe una relazione immoralmente transazionale, un do ut des dossier per dossier, a partire dalla migrazione. Per certi versi, però, un’affermazione del presidente uscente cambierebbe tutto: gli spazi democratici verrebbero ridotti ulteriormente. E quindi oggi, per quanto mi dica che la società turca ha dimostrato come mai prima d’ora di essere democraticamente viva, prevale la tristezza, quella che affiora quando penso ad amici come Hakan, condannato a 18 anni di carcere con l’accusa di aver collaborato all’organizzazione delle proteste di Gezi Park del 2013, e al suo bambino che ad aprile ha compiuto tre anni.

LA STAMPA

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