Niente è più mite nel tempo dell’ambiente estremo
Il commento non era rivolto a me, quindi l’ho assimilato e lasciato andare, ma ha continuato a tornarmi in mente nelle ore successive. Non per via di un giudizio morale (sono certo che il signore non sarebbe stato altrettanto perentorio poche ore più tardi), ma per l’insofferenza che trasmetteva rispetto al dibattito più ampio intorno alla crisi climatica. Una «storia» con cui ci stanno ammorbando (chi, non è chiaro, non lo è mai), una storia che poi viene puntualmente sconfessata dalla realtà.
Ammetto di essere rimasto anche un po’ sbalordito però. La comunità scientifica è pacificata sui fondamentali dei cambiamenti climatici ormai da decenni, anche i media mainstream sembrerebbero esserlo, ma qualcosa in noi, qualcosa di più profondo, continua a opporre resistenza. In questa rigidità interiore, perfino le emergenze finiscono spesso per volgersi nel contrario della consapevolezza. Le immagini aeree della pianura sommersa, le persone che chiamano aiuto e i video dei salvataggi: rendendoci vicini, ci allontanano anche, permettono di consumare tutto il nostro coinvolgimento nel dispiacere, anestetizzando la ragione. Alla fine, ciò che miriamo a risolvere il più in fretta possibile è sempre il nostro disagio personale.
Solo che non possiamo più permettercelo. È davvero arrivato il momento di un salto di qualità comune, perché la crisi climatica non è più un’eventualità. È un presente in corso, adesso in Emilia-Romagna domani chissà, che richiede forme di adattamento molteplici, economiche, infrastrutturali, sociali — e richiede rinunce, sì —, nessuna delle quali avverrà senza prima un cambio di mentalità diffuso. O forse, più dell’espressione «cambio di mentalità», che non trasmette nulla di nulla, potremmo iniziare a dire: resa. Nessuna delle modifiche sostanziali di cui abbiamo bisogno avverrà nella misura e alla velocità necessarie se una parte di noi non decide di arrendersi. Di lasciar andare per sempre l’idea rassicurante di un ambiente «mite», per ammettere quella nuova di un ambiente «estremo».
L’Italia è un territorio variegato, mosso, struggente. Ed esposto. La vulnerabilità — delle nostre coste, di certe aree montuose, delle isole e ora anche, sorprendentemente per molti di noi, della nostra più grande pianura — è il primo pensiero da ammettere per evitare di trovarci sospesi a mezz’aria, fra certe «storie» a cui non crediamo del tutto e un pianeta che non capiamo più.
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