Droga e documenti falsi: viaggio a Fquih Ben Salah, il paese del Marocco che si arricchisce con lo spaccio in Lombardia

Le insegne italiane

Aiutato dal figlio, il signor Hassan vende le angurie in strada. Ha un lungo passato da manovale tra Brescia e Bergamo: «Non si sta male. Per niente. Quando ero andato via, eravamo un villaggio agricolo. Ora non sanno più dove costruire le case. Girano tanti soldi». Le case, sì, e prima di esse i terreni oggetto di forsennate speculazioni. Ma poi i bar. Insegne italiane — quelli di prestigio sono dotati di ambienti climatizzati — e monopolio assoluto: spazzata via la concorrenza degli antichi caffè. 

La base del traffico di stupefacenti

Ben Salah è la base dei grossisti della droga e dei reinvestimenti del medesimo stupefacente. In particolare l’hashish. Come anticipato, si tratta di un argomento vietato finanche nelle conversazioni ufficiali con i ministeri e le forze di polizia dei pari ruolo stranieri, nonostante le analisi stilino report gravi, quale la nostra Direzione centrale dei servizi anti-droga che certifica una superficie coltivata a resina di cannabis di 20 mila ettari (l’estensione di Milano). 

Carte d’identità e patenti false per l’Italia

In aggiunta, negli scantinati di negozi di alimentari cui si accede con labirintici scalini, Fquih Ben Salah ospita i laboratori della contraffazione dei documenti: carte d’identità e patenti italiane. Il costo varia tra i 250 e i 300 euro (la moneta locale è il Dirham marocchino: 1 euro sono 10 Dirham, lo stipendio del ceto medio oscilla sui 600-700 euro, con 40 euro si fa il pieno del diesel a un’utilitaria). «Gli ordini giungono dai bar di Milano: Corvetto e San Siro». La prassi è inoltrare la richiesta in un primo locale e veicolarla attraverso dieci, venti altrettanti bar in maniera tale da depistare eventuali curiosi. Il trasporto dei documenti viene effettuato dai passeggeri non degli aerei — negli scali il sistema dei controlli, eredità della lotta contro il terrorismo voluta dal re Mohamed VI, è assai sofisticato — quanto dei pullman che in tre giorni coprono la tratta con l’Italia. Per la verità ci dicono, vagando per Fquih Ben Salah, che se mai ci venisse voglia di muoverci con questi pullman, beh, di avvisare: qualche etto di ottima hashish è sempre pronto. 

Verso Casablanca

Certi chiacchieroni che forse si bullano rilasciano circostanziati dettagli sui canali del fumo e sui pernottamenti nelle carceri di Opera e San Vittore. Fatto frequente e riassuntivo: l’ex immigrato che neanche accenna alla droga campa come gli riesce, miseramente, dunque sopravvive; la rimanente parte possiede invece i benedetti bar. Oppure ha traslocato. A Casablanca.

La parte reale del Marocco

Nell’avvicinamento a Fquih Ben Salah avevamo optato per il percorso dalla città di Khemisset; da Fquih Ben Salah abbiamo preso l’autostrada. Il primo tragitto è una sequenza di isolati villaggi che rimandano una parte reale del Marocco: bambini che rincasano a dorso di mulo, altri bambini che rincorrono palloni sgonfi ai margini di cave e altri muli così disabituati alle macchine da impazzire alla visione muovendo addirittura all’offensiva — per fortuna c’era un salvifico prato accanto per deviare… —, e macchine del caffè nei bagagliai di Fiat improvvisati bar a bordo delle strade e in generale l’immutabilità degli affreschi di Edmondo De Amicis a fine 1800: «Tutt’altra maniera di considerare il tempo e la vita. La gente non pare punto preoccupata delle sue faccende, né del luogo dove si trova, né di quello che accade intorno». 

La produzione di hashish e cocaina

Il secondo tragitto, in autostrada, intervallato da aree di servizio che vendono gelati italiani e hanno ampie moschee, è una panoramica sull’ordine delle campagne attraversate da mezzi agricoli cinesi. Un ordine che approdando a Casablanca e all’oceano si tramuta in un elenco chilometrico di quartieri residenziali in costruzione. Si costruisce ovunque. Anche coi guadagni della droga. Il Marocco è il primo produttore dell’hashish e un hub della cocaina, forte della posizione: l’Atlantico e il Mediterraneo insieme. Che la Dea, il Dipartimento anti-droga Usa, abbia uffici a Rabat, non è un caso. Così come che i cosiddetti «legionari della droga» siano marocchini e figli d’un luogo duro e aspro, e che la contemporanea geografia dei traffici sia una malvagia prosecuzione delle rotte aperte dai primi fra i primi. Chi? Lo vedremo.

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