Il (solito) grande scontro per il piccolo schermo
Stupisce che dopo trent’anni di bipolarismo il confronto in Italia sia ancora fondato sul sospetto reciproco e sulla mutua negazione della legittimità altrui
Per l’utente, in fin dei conti, cambia davvero poco. Chi ama la televisione di Fabio Fazio, e sono tanti, dovrà solo premere il tasto 9 invece che il tasto 3 sul telecomando. Il pluralismo delle voci, un tempo ricercato all’interno di un unico contenitore pubblico, la Rai, oggi è garantito dalla pluralità delle emittenti, a conferma che il mercato è amico della libertà di espressione. Ironia della sorte: stavolta è stata una multinazionale americana, la Warner Bros, a dare un contratto al beniamino della sinistra italiana. Ma se una logica commerciale fosse stata seguita anche dai nuovi azionisti di maggioranza della Rai, non avrebbero certo rinunciato a un cespite aziendale, cedendolo alla concorrenza, visto che i programmi di Fazio hanno ascolti e introiti pubblicitari che difficilmente garantiranno i sostituti.
Serve dunque qualcos’altro a spiegare perché questo addio e il collegato cambio della guardia nel management dell’azienda siano stati vissuti nel nostro dibattito politico drammaticamente, quasi come una ripetizione del conflitto del 25 Aprile. A destra quella data è stata anzi apertamente evocata: il tweet di Salvini ritorceva con un «Belli, ciao» indirizzato a Fazio e Littizzetto il «Bella, ciao» intonato dall’antifascismo militante contro Giorgia Meloni e il suo governo. Mentre a sinistra il 25 Aprile è stato implicitamente invocato, alzando di nuovo l’allarme democratico per il regime televisivo in arrivo, fatto di censura e soppressione delle libertà, in una parola un Minculpop.
Non sarebbe facile spiegare a uno straniero come mai qui da noi la televisione e i suoi programmi, non solo di informazione ma anche quelli di intrattenimento e di svago, siano diventati un vero e proprio elemento della Costituzione materiale del Paese, al punto da accendere conflitti politici di prima grandezza; e perché mai la Rai rappresenti il Sacro Graal di ogni maggioranza, lo scalpo cui non si può rinunciare dopo aver vinto una battaglia elettorale.
Ci sono ragioni storiche, ovviamente. In un Paese che è arrivato tardi all’alfabetizzazione di massa (e che sta rapidamente regredendo a un nuovo analfabetismo di ritorno), la televisione ha rappresentato fin dagli inizi una formidabile agenzia di formazione delle coscienze e dei comportamenti. Ha forgiato gli italiani del Dopoguerra, un po’ come il libro Cuore formò gli italiani dopo l’Unità, trasformandosi in un vero e proprio collante della Nazione, definendone il gusto e la lingua. Il declino delle altre grandi agenzie formative, dalla scuola alla Chiesa ai partiti di massa, ha fatto il resto: ancora oggi, in tempi di streaming, la tv generalista resta il modo più efficace di creare un evento, di affermare un’idea, di lanciare una suggestione.
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