Moretti: io, i film e i principi per cui lottare
ANNALISA CUZZOCREA
Questa è la storia di un inseguimento: dei pensieri, dei ricordi, delle idee di Nanni Moretti su quel che sta accadendo a tutti noi; su quel che avviene nel Paese, con il governo più a destra di sempre nella storia repubblicana (spoiler: si resta e si lotta per quello in cui si crede); su quel che succede nel dibattito sulla guerra, dove l’antiamericanismo dà vita a follie come il filoputinismo e noi vorremmo fare come Giovanni nel Sol dell’Avvenire, quando strappa la foto perché «io Stalin che era un dittatore nel mio film non lo voglio vedere». Tra pochi giorni Moretti sarà a Cannes, che è luogo di elezione del suo cinema. Lì è stato premiato con la Palma d’oro per La stanza del figlio, che era insieme bellezza e dolore, disperazione e conforto. Lì torna con l’aria di chi sa di essere capito. Questa conversazione con La Stampa inizia dalla Francia e arriva alle canzoni. In mezzo, ci sono Nanni ragazzino, il suo preside al liceo, la pallanuoto, la «preveggenza» ma, sopra a tutto, il potere salvifico del cinema.
Come mai questa connessione sentimentale con la Francia?
«Un
po’ è per caso, visto che i miei film sono pronti in primavera e li
propongo a Cannes. Ma soprattutto: mi fa piacere che in Francia il
cinema sia preso sul serio, sia come fatto artistico che industriale. Se
lei mi dice cinema, io non penso agli Stati Uniti, penso alla Francia,
penso alle sue tante sale, alle riviste di cinema (che qualcuno legge!),
alle associazioni di categoria – produttori, distributori, esercenti –
che in quel Paese contano davvero. I miei primi film a essere
distribuiti in Francia (Bianca, La messa è finita) sono arrivati lì
quando si era appena esaurita la stagione d’oro della commedia italiana,
in Francia amatissima. E allora per un po’ di tempo i miei film hanno
coperto un vuoto che si era creato, il pubblico li andava a vedere, a
Cannes erano premiati. Finché dura… Mi viene in mente mio padre,
professore di epigrafia greca, che quando al liceo io pur non sapendo
niente di latino e greco venivo promosso mi diceva: “Finché dura…”.
Non è durato: in prima liceo mi hanno prima rimandato in quattro materie
e poi a settembre mi hanno bocciato».
L’Italia a cena
parla del suo film. Si divide tra «capolavoro» e «le merendine della
mamma non torneranno più». Prevale il capolavoro. Ha fatto ridere ed
emozionato tanti, non solo chi l’ha sempre seguita. Se lo aspettava?
«Avevo
fatto un paio di proiezioni in una minuscola saletta con qualcuno della
troupe e persone che con il film non c’entravano niente. Alla fine
tutti avevano gli occhi rossi. Quando mettendoti a nudo racconti di te,
quando parti da te e riesci ad arrivare agli altri è un miracolo, una
fortuna di cui hai poca consapevolezza».
Adesso è più consapevole?
«Quando
ero giovane avevo una reazione indispettita quando mi si diceva che con
i miei film avevo raccontato una generazione, mi sembrava
un’interpretazione troppo sociologica e poco cinematografica. Ora ho
cambiato idea: se davvero è successo anche questo è per me un onore e
una fortuna. Ho fatto un po’ di presentazioni in giro per l’Italia e mi
ha toccato il calore e l’accoglienza affettuosa del pubblico».
Cosa ha smosso secondo lei?
«Forse
è anche un fatto di credibilità: le persone percepiscono che faccio un
film solo quando sento l’urgenza e la necessità di raccontare quella
determinata storia con quel determinato stile».
Quanto
c’è di lei nel volere riscrivere il finale della storia di Giovanni? Nel
rifiuto della depressione, del cappio, esorcizzato attraverso l’arte?
Nel dire: la storia è storta, ma io col cinema la posso raddrizzare?
«È
proprio quello che mi è successo all’inizio di tutto, quando, finita la
scuola, non sapevo cosa fare e mi sono aggrappato al cinema (anzi al
desiderio, al miraggio di fare cinema, cominciando a fare dei filmini
con la cinepresa Super8). A pallanuoto avevo esordito in serie A a
quindici anni, ero il regista della nazionale giovanile. Avevo
cominciato a fare un po’ di politica a scuola (non si riusciva a
comunicare con gli studenti, l’unica comunicazione era con i rivali
degli altri gruppi extraparlamentari di sinistra). E poi, in sequenza,
abbandonai la pallanuoto, poi abbandonai la politica, poi all’ultimo
anno di liceo mi ritirai da scuola: non volevo più studiare, non volevo
più fare niente».
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