Moretti: io, i film e i principi per cui lottare
Cosa è successo dopo?
«Il
preside mi disse: “Moretti, esca da questo guscio aggroppato in cui sta
consumando la sua giovinezza!”. Dopo qualche mese, nella stessa scuola
da cui mi ero ritirato, diedi l’esame di maturità da privatista. Non
sapevo cosa fare della mia vita. Come dicevo prima, mi aggrappai alla
speranza di fare del cinema: istintivamente e confusamente sentivo che
quello era il mezzo espressivo giusto per raccontare agli altri e a me
stesso quello che avevo urgenza di buttar fuori e comunicare. Ma era
ancora tutto campato in aria: i miei genitori erano insegnanti e non
c’entravano niente con il cinema, il teatro, lo spettacolo, il
giornalismo».
Tornando al cinema e al suo rapporto con la
realtà. Ci sono dei registi che raccontano con compiacimento una realtà
orrenda. Io questa volta ho preferito immaginare e sognare una realtà
migliore. Uno dei passaggi del Sol dell’Avvenire che più ha fatto
discutere, e tanto ridere, è quello in cui ferma la scena finale del
film violento di un regista che sembra un epigono di Tarantino. “Questa
scena fa male al cinema”, dice Giovanni, che mette in campo la morale
mentre la moglie dice: è solo un film. Questo scrupolo etico le
appartiene?
«Certo che mi appartiene. Mi sembra che ci sia
un folto gruppo di cineasti prigionieri di se stessi e della loro
inconsapevolezza. Un giovane regista mi ha detto: “Il tuo film è stato
per me un richiamo importante a quello che uno pensa e spera di poter
fare con il cinema”. Mi piace quando, da spettatore, un film mi dà
energia e carica per il mio lavoro».
Ha detto che le piattaforme sono per le serie, non per i film. C’è almeno una serie che ha visto e le è piaciuta?
«Il
metodo Kominski. Poi Broadchurch, Fleabag, SanPa, Succession (anche se
non ho ancora visto l’ultima stagione). Esterno notte, visto al cinema. E
mettiamoci anche The Crown, ma sì!».
È come se ci
fossero tante fiammate, sulle piattaforme, ma niente che duri, rimanga,
si sedimenti. È cambiato il nostro modo di fruire l’arte? La consumiamo
più voracemente di un tempo? Siamo spettatori disattenti?
«Se
vediamo un film a casa è molto minore l’attenzione, l’investimento
emotivo, la tensione, la disponibilità a farci sorprendere. Ci sono bei
film d’autore che se vediamo al buio in un cinema, con le immagini sullo
schermo tanto più grandi di noi, ci sorprendono, ci affascinano, ne
siamo gratificati. A casa, vedendo lo stesso film, dopo cinque minuti
spegniamo spazientiti».
Al contrario lei, proprio in
tempi di film sul divano e contenuti sui telefonini, ha riscoperto il
teatro. L’incanto del palcoscenico, il tempo sospeso.
«Non
so perché – o forse sì: è successo dopo la pandemia – negli ultimi due
anni sono andato molto spesso a teatro, come non mi era mai capitato. Ho
letto tutti i testi teatrali di Natalia Ginzburg e ne ho scelti due da
mettere in scena. Sono stato conquistato dalla sua lingua, così moderna,
asciutta, essenziale, mai soddisfatta di sé, mai autocompiaciuta. E poi
a me piace molto lavorare con gli attori, sulla recitazione. E oggi ho
più empatia per loro, li sento più vicini. Quand’ero ragazzo li
consideravo solo pedine diligenti di un giocattolo orchestrato da me.
Anni fa mi proposero una regia d’opera, Così fan tutte, ma io sono di
una ignoranza clamorosa e quindi dissi di no».
Ha detto che in Italia ci sono bravi registi, bravi attori, ma non un sistema che li sostiene.
«C’è
bisogno di leggi che aiutino il cinema in sala. Un film non può uscire
al cinema e dopo pochi giorni essere disponibile su una piattaforma. In
Italia ci vuole una cura, un’attenzione diversa per il cinema. Ci
dovrebbero essere belle trasmissioni televisive sul cinema e poi ci
vorrebbe un atteggiamento diverso da parte di registi, produttori,
sceneggiatori che si stanno progressivamente consegnando con docilità
alle piattaforme».
E invece?
«Dovrebbero
ricominciare a investire emotivamente, economicamente, psicologicamente
sul cinema in sala. So che non è semplice, ma bisogna continuare a
provarci».
La scena dei leoni nel ghetto, la vedremo mai?
«Non
credo. Era una deviazione dal racconto. Al montaggio lavoro senza
autoindulgenza, quindi può succedere che vengano sacrificate scene che
sono costate soldi, energia, tempo».
Il Sol dell’avvenire sembrano più film in uno. Lo erano?
«Anni
fa con le sceneggiatrici abbiamo lavorato a un film interamente
ambientato nel ’56. A un certo punto non siamo più riusciti ad andare
avanti, ci siamo bloccati, abbiamo lasciato perdere e abbiamo scritto
Tre piani. Dopo quel film abbiamo ripreso in mano il vecchio progetto
con il mio desiderio di farne anche una commedia. E raccontare anche il
carattere, le insofferenze, la vita del regista di quel film sul ’56. E
davvero in questi anni ho pensato al contenitore di Il nuotatore di
Cheever, che ti dà la possibilità di essere riempito con tanti
frammenti, storie e personaggi diversi. E ho anche pensato – e chissà,
potrei farlo in futuro – a una storia lunga molti decenni nella vita di
una coppia. E nella vita di un Paese».
Sembrava quasi di
vederlo, il nucleo di quel film, con i due ragazzi che guardano La dolce
vita e si innamorano. Mentre girava si rendeva conto della similitudine
tra l’invasione russa dell’Ucraina e i carri armati a Budapest?
«La
sceneggiatura l’abbiamo finita nell’estate del 2021. Tutto mi aspettavo
tranne che quel drammatico e lontano episodio tornasse improvvisamente e
imprevedibilmente d’attualità».
La rigidità del Partito
Comunista di allora, l’incapacità di formulare un giudizio oggettivo su
quel che stava accadendo in Ungheria, somiglia alla difficoltà di alcuni
intellettuali, oggi, di condannare senza se e senza ma la guerra di
aggressione di Putin?
«Mi ha sempre stupito che fino a
novembre dell’ ‘89 (crollo del muro di Berlino e inizio della fine del
PCI) rimanesse incredibilmente radicato in tanti a sinistra il legame
con l’URSS e i Paesi del blocco sovietico. Credo invece che nel rifiuto
di oggi di schierarsi totalmente dalla parte dell’Ucraina aggredita ci
siano altri motivi, per esempio l’antiamericanismo. Ma oggi, nel 2023,
come ci si può tranquillamente dichiarare filoputiniani? Mi sembra una
cosa incredibile, da mattarelli totali».
In Habemus papam un Papa si dimetteva. Non era mai accaduto, poi è successo davvero. Qualcuno si preoccupa mai delle sue arti divinatorie?
«Con i miei film non ho mai inseguito l’attualità. Mi è invece capitato spesso di precederla. Un po’ di fortuna, un po’ di attenzione».
Nel
film c’è un tenerissimo rapporto padre-figlia. In generale, c’è un
sentimento di tenerezza nei confronti dei più giovani che non è
esattamente lo spirito del tempo. Da cosa nasce?
«Negli
ultimi tempi mi è capitato di avere molti giovani nelle mie troupe e
questo mi dà una freschezza e un’energia nuova. Per quanto riguarda il
rapporto con mia figlia, alle volte faccio delle scelte espressive
proprio per spiazzare lo spettatore, per non offrirgli quello che si
aspetta. In questo caso ci si aspetta un padre giudicante e
rimproverante nei riguardi della figlia che sta con un uomo molto più
grande di lei. E poi non vedo perché il mio personaggio, molto attento –
quasi devoto – al suo lavoro, in pubblico, non debba essere nel privato
affettuoso con la figlia».
Silvio Orlando dice che si
capisce come sta dai suoi film. Si può dire che questo sia un buon
momento, nonostante il Paese sia in mano al governo più di destra che
potessimo immaginare?
«Per me è sempre un buon momento
quando lavoro e mi piace ogni singola fase della lavorazione di un film.
Non capisco quei registi che per esempio non vanno all’incisione delle
musiche o al missaggio perché “sono cose tecniche di cui si devono
occupare i tecnici”. La destra al potere fa la destra. Sono sicuro che
la sinistra tornerà a fare la sinistra e le farà bene qualche anno di
opposizione».
Michele Serra ha detto che se la sinistra
non si rifugia nella lagna e nel piagnisteo, ha nuovi spazi per fare
bene. Cito: “C’è da lavorare e ci sono i posti dove si può farlo in
piena autonomia. Io scrivo, oggi, con la stessa identica serenità di
ieri e dell’altro ieri”. Ha ragione?
«Ma certo. Io non ho
mai detto o pensato “se vince Tizio vado a vivere all’estero”. Ma perché
mai? Qui viviamo e qui ci dobbiamo battere per i principi in cui
crediamo. Non ho nemmeno mai usato la parola regime, anche quando, anni
fa, era politicamente e mediaticamente un’espressione che rendeva l’idea
della realtà. Credo di aver pensato tra me e me alla parola “regime”
solo durante gli ossessionanti Mondiali di calcio in Italia nel ’90».
In questo film è come se lasciasse la musica libera di esplodere, con scene che sembrano pezzi di musical. Come se anche le canzoni avessero la capacità di raddrizzare quel che è storto: una conversazione in macchina che si sta facendo triste, una storia d’amore che rischia di finire. Se le chiedo qual è la canzone più importante nella sua vita, riesce a sceglierla?
«Le canzoni nei miei film, il loro ruolo all’interno delle scene… Quarant’anni fa ero bravo a teorizzare sulle mie scelte espressive, oggi molto meno. Più passa il tempo, più amo il mio lavoro e meno so spiegarlo, sviscerarlo, interpretarlo, razionalizzarlo. Scegliere una canzone è impossibile. Gliene dovrei dire almeno cento».
LA STAMPA
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