Crollo del ponte Morandi, Gianni Mion e la rottura con i Benetton: «Eravamo incompetenti»
di Andrea Pasqualetto
Lo storico braccio destro della famiglia di Ponzano: «Gli avvocati chiedono che io venga indagato per quel che ho detto? Facciano pure, è solo la verità». Il procuratore: «Valuteremo»
«Sono a Strasburgo, ho letto anch’io di queste dichiarazioni e devo dire che la cosa non passa inosservata, almeno nei termini in cui sono state riportate. Parlerò con i miei colleghi venerdì prossimo, chiederò la trascrizione integrale della deposizione del testimone e decideremo il da farsi». Il procuratore di Genova Nicola Piacente vedrà cioè se ci sono davvero i presupposti per indagare Gianni Mion, lo storico braccio destro della famiglia Benetton che ha riconosciuto di aver sentito parlare di rischio crollo fin dal 2010. L’aveva già detto ai pm nel corso delle indagini preliminari ma ieri, in aula, ha circostanziato la cosa, ci ha aggiunto un paio di aggettivi e l’effetto è stato dirompente.
Il rapporto
Mion e i Benetton, un rapporto strettissimo fin dai tempi in cui il core business del gruppo di Ponzano era l’abbigliamento. «Entrai nel 1986 in Edizione e la volontà era quella di diversificare il portafoglio», ha ripercorso velocemente la storia finanziaria della quale è stato uno dei protagonisti. Maglioni, sport, Piazza Affari e quel pallino di Gilberto Benetton: Autostrade. «Ma la verità è che eravamo incompetenti e le cose migliori le abbiamo fatte quando avevamo dei soci che ci aiutavano a capire». Questo pensiero d’incompetenza era emerso in modo chiaro dalle intercettazioni disposte dalla Procura di Genova dopo il disastro del Morandi, che hanno messo a nudo un quadretto familiare e del management non proprio idilliaco. «C’è poco da fare, il clima è questo e adesso bisogna inventarsi qualcuno che affianchi i Benetton perché il vero problema è la loro inettitudine… non c’è stata la minima presa di coscienza», sottolinea Mion in una chiacchierata. Nelle conversazioni si parla di Franca Benetton che «dice delle cose e dopo cinque minuti dice l’opposto, non stimola gli investimenti, le piacciono anche i dividendi…»; di suo cugino Alessandro che «adesso vuole i soldi perché lui ha un progetto, dice che è imprenditore e che gli altri non capiscono niente, mamma mia, pensano solo ai c… loro»; di Sabrina che scalpita e «incontra Franca ma i loro discorsi non sono mai molto concreti».
«Ero un surrogato»
L’anima finanziaria del gruppo era Gilberto, padre di Sabrina, deceduto due mesi dopo la tragedia. Era lui il collante, l’artefice della crescita esponenziale delle
attività. Fra Gilberto e gli amministratori gravitava Mion, ad di
Edizione, poi consigliere di Atlantia e di altre società, un po’
ufficiale di collegamento con le varie realtà aziendali. «Monitoravo il
lavoro dei cda, indicavo consiglieri, direttori… — ha spiegato ieri —
mi sono sempre considerato un surrogato dell’azionista, che cercavo di
supportare in tutti i modi. In alcuni frangenti ritenevo di avere più
mestiere io… Ma Autostrade era una cosa troppo difficile per noi e per i miei azionisti».
In un’intercettazione Mion parlava così del Morandi: «Quando io ho chiesto all’ingegner Castellucci e ai suoi dirigenti chi certificasse la stabilità e l’agibilità di questo ponte, mi è stato detto: ce lo autocertifichiamo».
I dubbi erano nati durante una riunione di vertice: «Noi sapevamo che
il ponte aveva un problema di progettazione, lo sapevamo. A quella
riunione c’erano proprio tutti: i consiglieri di amministrazione di
Atlantia, gli ad, il direttore generale, il management e loro hanno
spiegato che quel ponte aveva una peculiarità di progettazione che lo
rendeva molto complicato. Un ponte molto originale ma problematico».
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