Lo Stato, l’autonomia, le Regioni e un bilancio da fare
Si annuncia ora, con il progetto del ministro Calderoli sull’ «autonomia differenziata», un ulteriore, formidabile passo avanti verso la sostanziale messa in mora, in Italia, dello Stato centrale a vantaggio delle Regioni.
Di fonte alla quale è impossibile non porsi preliminarmente una domanda: è ammissibile che la prospettiva neoregionalista (ma in realtà dalle tinte federaliste sempre più marcate) proceda senza che si senta il bisogno (ad esempio con un libro bianco) di fare un bilancio di ciò che ha significato l’attuazione dell’ordinamento regionale? Ad esempio: com’è cresciuto negli anni e a quanto ammonta oggi il numero dei dipendenti regionali? Con quale percentuale di spesa sul bilancio delle regioni? Quali sono oggi le principali destinazioni della loro spesa? Ancora: è vero o non è vero che l’istituzione delle Regioni non ha significato alcun calo delle spese dello Stato centrale? Per finire: in quale misura le legislazioni regionali hanno varato nuove, asfissianti, procedure autorizzative per un gran numero di ambiti in precedenza esenti ovvero hanno reso più complicate e macchinose le procedure esistenti? E quindi più complicata la vita dei cittadini?
Detto ciò appare davvero sorprendente innanzi tutto il modo in cui il nuovo regionalismo dovrebbe essere attuato. Vale a dire attraverso la stipula di una serie di intese tra lo Stato e ogni singola Regione — ogni intesa diversa dall’altra nei contenuti, della durata determinata solo come tempo massimo (dieci anni) ma per il resto cancellabile e modificabile a piacere in ogni momento e anche rinnovabile o no a piacere. Non si tratta forse di un singolarissimo meccanismo che equivale di fatto a una reale frantumazione dello Stato unitario senza che peraltro neppure si dia vita a uno Stato federale di fatto? Non solo con questo sistema ogni italiano che cambi regione si troverà domani alle prese con un universo di regole, di procedure, di diritti e doveri nuovi, ma la mutabilità nel tempo di ogni singola intesa (con relativa decadenza o mutamento delle regole) si prospetta come la potenziale anticamera di uno strascico enorme e interminabile di contenzioso giudiziario amministrativo per interessi lesi.
Quanto alle materie nelle quali in seguito a ogni singola intesa potrà esercitarsi la potestà normativa delle Regioni, il ddl Calderoli non solo lascia inalterato l’elenco di cui all’art.117 della Costituzione con le assurdità ivi contenute (grandi rete di trasporto e di comunicazione, produzione e trasporto dell’energia, ecc.) ma lascia impregiudicata «l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» con relativa «compartecipazione al gettito di uno o più tributi erariali maturato nel territorio regionale».
A contenere un tale sconfinato oceano di possibilità sta la diga rappresentata dalla formula del «senza ulteriori oneri per la finanza pubblica» che a scopo di rassicurazione il disegno di legge ripetutamente evoca. Ma chi ha un po’ di memoria ricorda bene come esattamente la medesima diga, assolutamente la medesima, fu alzata mezzo secolo fa quando si trattò di varare il primo ordinamento regionale: con quale strepitosa efficacia si è visto in questi decenni.
La verità è che, a dispetto di ogni infingimento, di ogni cautela sulla carta, il progetto di legge Calderoli costituisce un formidabile colpo di piccone contro ciò che ancora sopravvive del nostro Stato e dell’unità della nazione. E a questo proposito è difficile non riflettere amaramente sul paradosso di un sistema politico che fa sì che ciò avvenga proprio con un governo guidato da chi da sempre ha fatto dell’uno e dell’altra il cuore della propria identità. AutonomiaCostituzione
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