Baiardo, l’uomo dei misteri
Molto strano è il passaggio di Salvatore Baiardo attraverso il mondo giudiziario. Arrestato dalla DIA di Firenze e passato sotto la supervisione di Pier Luigi Vigna, parla molto, ma non mette a verbale. Fa nomi, elenca circostanze, ricostruisce la filiera dei soldi, ma non diventa un “collaboratore di giustizia”. Viene liberato dopo due anni e due mesi. Quando si andrà a processo, sorpresa: contro di lui Vigna firma solo una richiesta – risibile – per favoreggiamento. E per questo viene liberato e perdonato. Se ci sia stata una trattativa privata tra il procuratore e l’imputato non si saprà mai.
Vigna intanto è diventato procuratore nazionale antimafia e quell’esperienza “baiardesca” gli viene utile, quando, luglio 1997, viene arrestato a Palermo Gaspare Spatuzza, il killer più in gamba del clan Graviano. Spatuzza e Baiardo si conoscono, eccome. Il clan Brancaccio si sta dissolvendo, tra pentiti e semi pentiti. Gaspare Spatuzza non è da meno e spiffera tutto subito: “se volete la verità, guardate a Milano Due” sono le sue prime parole: il procuratore Vigna lo cura, lo fa trasferire al carcere di Tolmezzo (il penitenziario preferito per colloqui riservati) e lì, insieme al suo vice Piero Grasso, Spatuzza racconta tutto, luglio 1998, ma proprio tutto: le stragi, Capaci, via D’Amelio, i Graviano, Dell’Utri, Berlusconi, la nascita di Forza Italia, l’impostura del falso pentito Scarantino, il ruolo malefico del questore Arnaldo La Barbera. Ne esce un verbale di 164 pagine, che dovrebbe essere studiato nelle scuole (e che i lettori possono facilmente trovare online digitando “Il Post”-“Deaglio”-“Spatuzza”), con un particolare succoso: quando sembra che l’accordo sia fatto, Spatuzza non firma, affermando che le garanzie per sua moglie non sono sufficienti. Succede spesso così, nelle grandi trattative, ma stranamente Vigna non rilancia; eppure era facile: avrebbe potuto coprirla d’oro la moglie di Spatuzza e lui medesimo, la coppia era terribilmente venale. Per dire, quando Spatuzza uccise don Puglisi, al Brancaccio, prese dal suo portafoglio la marca della patente. Quando Graviano gli impose di controllare i freni della Fiat 126 che avrebbe ucciso Borsellino, si fece dare cinquantamila lire, ma non li diede al meccanico).
E invece, niente, i tre si salutano… Resta però un verbale scritto (quello audio invece pare proprio si sia perso) che riaffiora quindici anni dopo in un dimenticato faldone della procura di Caltanissetta, davanti alla quale Spatuzza nel 2010 ha finalmente concluso la trattativa sul suo pentimento light. E dire che quel documento non avrebbe mai dovuto saltare fuori.
C’è un altro particolare che lega Baiardo a questa grande vicenda. Nel 2010, quando, insieme a Spatuzza viene resa nota la testimonianza di tale Fabio Tranchina (“Giuseppe Graviano ha schiacciato il telecomando di via D’Amelio”), il gelataio di Omegna si fa vivo con i giornali: io so la verità! Tranchina mente, quel giorno Graviano era con me ad Omegna, un poliziotto può testimoniarlo; si fa forte del fatto che, in fin dei conti, è stato solo un favoreggiatore, reato minore. L’alibi era palesemente falso, ma nessuno neanche pensa di incriminare Baiardo. Chissà perché.
Ora, quindici anni dopo, tutto sembra dimenticato e Salvatore Baiardo è in grado di tenere sulla corda mezzo mondo. Ha la foto del Trio, ha visto, anzi l’ha addirittura fotocopiata, l’Agenda Rossa di Borsellino, ha trattato una soluzione del caso con Paolo Berlusconi, sta per pubblicare un libro, nessuno lo può fermare, Tik Tok lo ospita volentieri, Report anche. Sa anche perché è stato ucciso Falcone: l’hanno ucciso i comunisti perché indagava sui finanziamenti russi al Pci.
Ma davvero siamo ridotti così, che dopo 31 anni di antimafia, chi comanda la scena è il gelataio di Omegna?
L’altro ieri ero a Capaci, a parlare di queste cose, in piazza. Capaci è diventato un bel paese, ben amministrato, solido e temprato dalla storia. Ma tutti i presenti sapevano che la memoria del boato venuto dal sottosuolo dell’autostrada non li abbandonerà mai. Un uomo adulto, (che continua a chiamarsi “ragazzo”), ha raccontato di come il 23 maggio 1992 lui, che era ragazzo davvero e fotografo di matrimoni per professione, fosse stato il primo a recarsi sul cratere. Abitava a cento metri, scattò rullini di panoramiche. Poco dopo arrivò il vice questore Arnaldo La Barbera, che gli fece sequestrare i rullini. Un altro uomo adulto ha raccontato che all’epoca era garzone in una panetteria e venne un uomo, del paese, ad ordinare venti panini, per i suoi operai che facevano un lavoro.
Sulla collinetta, è stato ricordato, dove adesso è scritto “No Mafia” (che non si capisce se voglia dire, come “no global”, non è stata la mafia, o se voglia dire semplicemente: non vogliamo la mafia), c’era Antonino Gioè, per conto dei servizi segreti italiani, probabilmente uno dei destinatari dei venti panini. Gioè venne arrestato l’anno dopo, e portato a Rebibbia. A Rebibbia era stato anche portato Salvatore Riina, il capo dei capi. Stranamente Riina, in carcere, disponeva di un telefono cellulare. Stranamente Gioè aveva la cella vicina alla sua. Stranamente, Gioè venne trovato morto – impiccato? – nel luglio 1993. “Si è pentito di quello che ha fatto” disse il generale Mori. Non ci fu mai un’inchiesta, nessuna curiosità, in trentun anni. E tutt’ora, che sarebbe ancora possibile.
Oggi è l’anniversario, e Baiardo è l’unico a festeggiarlo. E’ diventato famoso, ha vinto. Ed è un peccato che noi – noi opinione pubblica, noi magistrati, noi Stato, noi giornalisti gli abbiamo permesso tutto questo scempio di verità.
Resta davvero l’amaro in bocca, inoltre, che la verità si sapesse fin dall’inizio e che sia stata così facilmente occultata.
LA STAMPA
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