Governo in confusione e l’altolà dell’Europa
Stefano Lepri
Non si poteva trovare simbolo migliore dei guai dell’Italia. Alle prese con il Pnrr rischiamo, come Paese, di mostrarci incapaci di preparare il domani. Le difficoltà a realizzare gli investimenti che più darebbero frutti in futuro sembrano spingere le forze politiche dominanti a preferire meno soldi ma a pronto effetto. Eppure, proprio queste difficoltà ci indicano dove occorrerebbe innovare.
L’Europa offre un sacco di soldi per dare alla nostra economia una spinta che duri negli anni, e che dunque eviti all’Italia di perdere altro terreno nel mondo. Ora si scopre non solo che quei soldi faticheremo a spenderli, o che rischiamo di dedicarli a opere poco utili; si scopre perfino che dubitiamo dell’idea stessa di investimento, ovvero costruire qualcosa che sia utile poi. Avremmo la possibilità di prospettarci traguardi ambiziosi, tipo infrastrutture e servizi al livello dei Paesi più avanzati; ma non si smuovono strutture pubbliche inefficienti perché paralizzate da conflitti e veti reciproci di mille piccoli poteri litigiosi e invidiosi, più ancora che dalle scarse capacità di uffici dove per anni non si sono assunte persone competenti e capaci.
Tutto ciò che non marcia nell’attuazione del Piano conferma l’urgenza delle riforme che secondo gli accordi europei ne sono parte essenziale, e casomai segnala che ne occorrerebbero di più incisive. Ma proprio di riforme – burocrazia, giustizia, concorrenza, la lista è nota – si sente parlare pochissimo, né si intravedono novità. Sono intasati i canali attraverso i quali la politica dovrebbe raccogliere le esigenze dei cittadini. Erano stati inseriti nel Piano gli stadi di Venezia e di Firenze, non c’erano invece abbastanza residenze per studenti universitari, quelle che ora reclamano ragazze e ragazzi attendati in svariate piazze: quando appunto l’Italia ha meno laureati di tutti gli altri Paesi d’Europa. Investire sul futuro non è solo costruire opere che migliorino città e comunicazioni, è preparare meglio i giovani. Però i maggiori finanziamenti per la ricerca universitaria rischiano di disperdersi nelle scelte piccine di cerchie accademiche chiuse. Né ci si domanda come mai nei confronti internazionali vadano bene i bimbi delle elementari, appaiano in ritardo i ragazzi delle superiori.
Se le amministrazioni pubbliche sono lente ad agire, non è di per sé una cattiva idea dare più spazio al settore privato. Ma per che cosa? Da trent’anni, fin da quando non colsero l’occasione storica offerta dallo smobilizzo dell’industria di Stato, le nostre imprese private si sono mostrate poco ardite nell’innovazione, e in media hanno investito meno delle concorrenti. Occorrerebbe concentrare gli sforzi su investimenti di valido contenuto. Non serve distribuire a pioggia; né gli altri governi ci permetterebbero di destinare le risorse dell’Europa a sussidi per far meglio competere le aziende nostre con le loro. Va detto poi che le aziende italiane più dinamiche sono, quasi sempre, quelle che hanno avuto poco a che fare con il denaro pubblico.
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