Perché rendere la gestazione per altri reato “universale”?

Vladimiro Zagrebelsky

Iniziano il corso parlamentare alcune proposte di legge che vogliono rendere “universale” il reato, già esistente, del ricorso alla surrogazione di maternità. Così viene chiamata nella legge n. 40 del 2004 una pratica altrimenti e più propriamente detta della gestazione per altri o, se se ne vuol sottolineare il profilo negativo, dell’utero in affitto. Essa prevede che una donna accetti di condurre una gravidanza e partorire un bambino non per sé, ma per un’altra donna o per una coppia etero o omosessuale, con l’impegno sottoscritto in un contratto di rinunciare poi al bambino che ne nascerà, in favore dei committenti. Tale pratica è vietata e sanzionata penalmente non solo in Italia, ma anche in altri Stati europei, per tanti versi simili all’Italia, come Austria, Germania, Francia, Spagna, Svizzera. In alcuni altri Stati è consentita solo se gratuita, in altri anche se retribuita.

Il reato esiste in Italia da anni e non risultano proposte di eliminarlo, rendendo lecito ciò che è vietato. È diffuso infatti il giudizio negativo. In diverse sentenze la Corte costituzionale – che pur in altra occasione aveva definito “incoercibile” la volontà di avere un figlio – l’ha stigmatizzata, dicendo che offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane, con una inaccettabile mercificazione del corpo della donna e con sfruttamento della vulnerabilità di donne in situazioni sociali o economiche disagiate. Anche il Parlamento europeo (Risoluzione del 17 dicembre 2015) l’ha condannata in quanto compromette la dignità della donna, il cui corpo e le cui funzioni riproduttive sono usati come merce. La discussione sulla introduzione del divieto penale di gestazione surrogata anche quando essa sia compiuta all’estero, in uno Stato che l’ammette, è diversa da quella sulla sua illiceità, che non è in discussione, nemmeno per introdurre differenziate valutazioni secondo la varietà dei casi. Che non sono solo quelli della coppia omosessuale maschile, ma anche, ad esempio, quelli in cui in una coppia eterosessuale la donna sia o sia divenuta impossibilitata a condurre una gravidanza, che invece, con i gameti della coppia, viene condotta da altra donna. Né si apre una discussione sul trattamento da riservare a ipotesi, rare ma esistenti, di gestazioni caratterizzate da intenti di pura solidarietà, non lesive della dignità della donna, né riducibili alla logica di uno scambio mercantile. La discussione, senza distinzioni, riguarda ora invece la estensione della punibilità a tutti i casi anche quando si siano svolti all’estero. Si tratta di penalmente sanzionare gli adulti, che hanno utilizzato la disponibilità di una donna a gestire per loro una gravidanza, aggirando il divieto in Italia con il praticare all’estero ciò che qui è vietato. Ma vi è collegata la questione centrale del trattamento da riservare al bambino che ne è nato: i bambini già nati all’estero prima della nuova legge e quelli che, qualunque sia la nuova punibilità, nasceranno ancora. Poiché a quei bambini non si può dire che non avrebbero dovuto nascere, né si può negare il diritto a vedersi riconosciuto e mantenuto uno stato di filiazione quanto più rispondente alle sue esigenze di vita e alla realtà di instauratisi rapporti di famiglia. Con conseguenze legali, come il diritto al cognome e alla cittadinanza. L’effetto della punibilità del fatto anche se commesso all’estero porta con sé l’impedimento di chiedere la trascrizione nei registri dello stato civile del certificato di nascita rilasciato all’estero (generalmente alla coppia omosessuale maschile). Si tratterebbe infatti di una autodenuncia per il reato previsto dalla legge italiana. Ed è proprio questo che si vuole ottenere.

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