Le conseguenze economiche del melonismo post-draghiano
Non vogliamo rovinare il presepe meloniano, così mirabilmente agghindato dalle tante Agenzie Stefani acquartierate nelle redazioni dei “picchiatori d’area” e nei telegiornali della Tv di Stato (e mai definizione fu più in linea con i tempi). Siamo felici di questa straordinaria resilienza italica, di fronte ai tre choc globali di questi ultimi tre lustri: crisi dei debiti sovrani, pandemia e guerra in Ucraina. Siamo fieri di questa economia reale che non solo si cura le ferite, riparte e addirittura fa meglio di quelle dei partner occidentali. Per quest’anno il Fondo monetario assegna all’Italia una crescita dell’1,1% (migliore della stima precedente ferma allo 0,7), mentre la Commissione europea prevede un più 1,2% (contro una media dell’1,1 nell’Eurozona).
Se poi pensiamo che da giovedì scorso la Germania è ufficialmente in recessione, allora mancano solo i Re Magi, e anche l’Epifania Tricolore sarà infine compiuta. In realtà, come ricorda giustamente Mario Deaglio, questa bolla festosa che il governo gonfia ogni giorno d’aria e propaganda rischia presto di scoppiare. Il fronte internazionale è pieno di incognite. Secondo il Global Debt Monitor dell’Iif, proprio nel momento in cui Fed e Bce hanno stretto il nodo scorsoio dei tassi di interesse, il debito mondiale è volato alla cifra monstre di 304.900 miliardi di dollari. In America la stretta monetaria ha innescato una discesa del costo della vita, ma i debiti delle famiglie hanno superato per la prima volta nella storia quota 17 mila miliardi di dollari: se va bene ci sarà meno inflazione ma crescita anemica, se va male ci saranno recessione e default privati, che si aggiungono a quello pubblico non ancora scongiurato dalla Casa Bianca e dal Congresso.
In Europa il caro-prezzi è più ostinato, e questo spingerà Christine Lagarde a elevare ancora i tassi, proiettando sull’economia dell’area euro lo spettro di una vera recessione.
Il fronte interno è ancora più vischioso. Come osserva opportunamente Alessandro Penati, tanto “compiacimento per le previsioni gratificanti di crescita del nostro Paese” potrebbe portarci presto a “un brusco risveglio”. Al di là della spinta momentanea dell’edilizia drogata dal Superbonus, delle ottime performance di alcune filiere produttive come l’agroalimentare e dell’export manifatturiero, la politica economica è confusa, contraddittoria, corporativa. La Melonomics, semplicemente, per adesso non esiste. Non è una critica faziosa, perché finora non esiste nemmeno una Schleinomics. È, più banalmente, la somma delle gravi criticità evidenziate in questi ultimi giorni da tutte le principali istituzioni indipendenti.
L’ultimo a smontare il vacuo storytelling della presidente del Consiglio e del suo ineffabile ministro del Tesoro è l’Fmi, che invoca “un piano credibile di riduzione del debito a medio termine”, suggerisce una revisione del sistema previdenziale con “un’età pensionabile collegata alle aspettative di vita, prestazioni maggiormente allineate ai contributi e abolizione dei regimi di prepensionamento”, consiglia un Fisco che “incoraggi l’occupazione, abolisca le spese fiscali inutili, rafforzi la riscossione delle entrate, tuteli la progressività”. La Banca d’Italia, in audizione alla Camera, è inflessibile sulla delega fiscale: mancano “le opportune coperture finanziarie”, non è chiaro “né quali incentivi saranno oggetto di razionalizzazione né quindi l’entità delle risorse che potranno essere recuperate”, ma soprattutto il sistema ad aliquota unica e a riduzione del carico fiscale risulta “poco realistica per un Paese con un ampio sistema di Welfare, specie alla luce dei vincoli di finanza pubblica”.
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