Le conseguenze economiche del melonismo post-draghiano
La Commissione europea, nelle sue Raccomandazioni”, non fa sconti: contesta le “inefficienze strutturali nel settore pubblico” che “scoraggiano gli investimenti e rallentano la crescita della produttività”, dal lato delle uscite rimarca il perdurante “squilibrio macroeconomico eccessivo” e la necessità di limitare “l’aumento nominale della spesa primaria”, dal lato delle entrate critica l’imposta ad aliquota unica che “accresce i rischi legati all’equità” e anche la riduzione del numero di scaglioni che “ostacola la progressività del sistema fiscale”, fino ad arrivare alla riforma costituzionale dell’autonomia differenziata, che “senza risorse aggiuntive” non garantirà mai “i livelli standard dei servizi nelle regioni con bassa spesa storica”. L’Ufficio Parlamentare di Bilancio è ancora più severo: il passaggio dagli attuali scaglioni Irpef a uno schema ad aliquota unica “determina effetti redistributivi che penalizzano i soggetti con redditi medi e favoriscono quelli con redditi più elevati”, a meno di rinunciare “a una quota elevata di gettito” o di ricorrere ad altro indebitamento netto, con ovvie “conseguenze negative sull’equilibrio dei conti pubblici”. In generale, tutti i centri di osservazione extra-governativi rilevano con preoccupazione gli evidenti “delays” del Recovery italiano, cioè i clamorosi ritardi nell’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza. La Corte dei conti segnala che tra il 2022 e il primo trimestre del 2023, sui 24,5 miliardi complessivi di spese affidate alle Amministrazioni centrali, il “tasso di attuazione arriva solo al 13,4%”.
Questa è l’immagine che hanno di noi i principali organi di controllo e di garanzia no-partisan. Per sintetizzare: in un medio termine che vedrà il carovita e il costo del denaro ancora molto alti, la fuoriuscita definitiva dai programmi di acquisto dei bond da parte della Bce e il ripristino dei vincoli del Patto di stabilità a partire dal prossimo anno, la strategia del governo italiano non dà garanzie di alcun genere. Non offre un percorso di rientro del debito né di abbattimento del rapporto deficit/Pil. Non ha uno straccio di idea efficiente sul fisco, se non una Flat tax che sfascia il bilancio e l’equità fiscale (non a caso su 225 Paesi del mondo la adottano solo in 23, dall’Armenia al Belize, dalla Bolivia all’Uzbekistan). Non prevede un riassestamento del Welfare, che a partire dall’invecchiamento della popolazione rimetta ordine alla spesa previdenziale a vantaggio di quella sanitaria (nel 2026 già destinata a scendere, secondo il Def, al 6,2 per cento del Pil, cioè ai livelli pre-Covid). Non combatte le povertà e le disuguaglianze, se non con una brutale demolizione del reddito di cittadinanza che lascerà di fatto senza sussidi almeno un milione di soggetti deboli e inoccupabili. Non aiuta i giovani, per i quali mancano un disegno su istruzione e formazione e un investimento sul capitale umano (tuttora il 19% dei neo-diplomati emigra all’estero, per non parlare dei neo-laureati). Soprattutto, non mette in campo niente di strutturale per rafforzare produttività e crescita, e per di più spreca la monumentale e irripetibile occasione del Pnrr. Non proprio la “Open to Meraviglia” di Daniela Santanché. Semmai “La finestra sul nulla” di Emil M. Cioran.
Contemplando questo nulla dalle rispettive casematte del potere, Giorgetti balbetta e Fitto impapocchia. In compenso la premier fa appello al solito “tengo famiglia”, spiegando ai concittadini che “se non facciamo più figli siamo rovinati”. Blandisce i lavoratori dipendenti con il salvifico calo del cuneo fiscale, sperando di poterlo rendere definitivo a fine anno, giusto in tempo per infilare il “Bonus Meloni” nelle buste paga degli italiani, come cadeau elettorale in vista delle Europee 2024. Accarezza i lavoratori autonomi, guardandosi bene dall’aggredire l’evasione fiscale perché lei dice “no al pizzo di Stato” (come se pagare le tasse non fosse il solo e giusto modo per finanziare ospedali e garantire servizi, ma una mazzetta pretesa dal Leviatano di Hobbes). E questo è tutto. Ferma restando l’apprezzabile presa d’atto dell’esistenza di un “vincolo esterno” europeo (che ci salva e non ci distrugge, al contrario di quello che i sovran-populisti tendenza Visegrad hanno professato per anni), la domanda da porsi ora è un’altra: che idea di Italia hanno i nostri eroi? Un tempo, alla grossa, l’avevamo intuita: destra sociale e pauperismo, Stato forte e assistenzialismo, autarchia e anti-capitalismo. Ma oggi? Cos’è questa pasticciata Dottrina economica di scuola meloniana, che non è compassionevole ma neanche sviluppista, non è liberale ma neanche liberista, non è assistenziale ma neanche rigorista? Che dà due spicci ai poveretti e se ne frega del ceto medio, fa i condoni e non tassa gli extra-profitti, predica il lassez-faire per i padroncini e non ha un progetto per la grande industria (vedi Ilva e Tim)?
Sull’economia urge un serio chiarimento, tra l’infornata di mezzi busti e mezze tacche Rai incaricati di redigere il nuovo “palinsesto della Nazione” e il reclutamento di pseudo-intellettuali della galassia nera assoldati per costruire la “nuova egemonia culturale”. In caso contrario, sarà autunno caldo. E allora si prepari Mario Draghi. Non per subentrare ai patrioti, perché non cadranno di sicuro. Ma per accogliere tutto il fango postumo che gli scaricheranno addosso, pur di nascondere i loro fallimenti.
LA STAMPA
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