Pnrr, dietro i ritardi italiani le tensioni tra Palazzo Chigi e il Mef e il nodo energia
di Federico Fubini
Ursula von der leyen, presidente della Commissione europea
Se Bruxelles ha fretta di vedere le modifiche dell’Italia al Piano nazionale di ripresa e resilienza, non è solo perché sul successo di Roma Ursula von der Leyen si gioca una piccola parte del proprio futuro. Certo, un po’ forse è anche quello: la presidente della Commissione è fra gli artefici del Recovery e della scelta di concedere all’Italia la quota più ampia dei fondi; se il progetto fallisse nel Paese più emblematico, per qualcuno dei governi da sempre meno entusiasti in proposito non sarebbe certo un argomento per la rielezione di von der Leyen nel 2024. Dietro la fretta di Bruxelles c’è però soprattutto una ragione pratica: i garanti delle risorse del Pnrr sono proprio i governi europei, i quali dovranno necessariamente approvare le proposte del governo di Roma dopo che l’avrà fatto la Commissione stessa; la procedura prenderà mesi e, se si aspetta ancora, c’è il rischio che resti poco tempo per realizzare gli investimenti entro la scadenza del 2026. Le risorse
I tre fattori del ritardo
Intanto però in Italia si stanno facendo sentire tre fattori che portano il ministro per gli Affari europei, Raffaele Fitto, a procrastinare. Il primo è legato agli equilibri nel governo. Chi conosce bene l’impianto del Pnrr stima che i fondi potenzialmente soggetti a un cambio di destinazione pesino, al massimo, fra il 12% e il 15% dei 191,5 miliardi destinati all’Italia. Dunque fra venti e trenta miliardi al più, il che sarebbe già moltissimo. Ma per individuare gli investimenti da tagliare o da spostare, Fitto si è rivolto a coloro che ne detengono i segreti: le diverse amministrazioni ministeriali che, in teoria, hanno il quadro ciascuna dello stato di attuazione dei propri progetti. Qui è scattato l’istinto di autoconservazione delle burocrazie, perché molti ministeri sono tutt’altro che entusiasti di fare trasparenza. Nessuno ha fretta di rischiare di vedersi privare di fondi, solo perché alcuni cantieri non sono al passo.
Ragioneria dello Stato ai margini
Ha iniziato a farsi sentire a questo punto il secondo fattore di ritardo: il freddo sceso — più che fra i politici — fra gli uffici del ministero dell’Economia e di Palazzo Chigi. Fitto e la premier Giorgia Meloni hanno voluto lo spostamento alla presidenza del Consiglio della gestione del Pnrr e dei fondi europei tradizionali. Vista dal ministero dell’Economia, è stata l’amputazione di poteri di gestione di risorse per quasi trecento miliardi di euro. Questa svolta e le stesse riserve di Fitto hanno messo ai margini la Ragioneria dello Stato, che è parte del ministero dell’Economia. Negli ultimi tempi hanno lasciato il ministero oltre venti addetti al Pnrr, quindi la capacità di controllo finanziario del Piano ne sta soffrendo. È come se, sul Recovery, il principale centro di know how finanziario del governo si fosse messo alla finestra in attesa degli errori altrui: «Se qualcuno vuole le nostre competenze — dice una voce dall’interno — le prende e ci fa ciò che ritiene».
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