Il potere infinito (e le colpe) di Erdogan

Erdogan, piaccia o no — e a noi europei non piace —, per oltre metà dei turchi è l’uomo che ha riportato il loro Paese al centro del mondo. Prima di lui comandavano i generali. Il sistema politico era debole e frammentato. Mustafà Kemal detto Atatürk aveva trasformato un impero in uno Stato, e fatto della Turchia una nazione laica aperta all’Occidente. Erdogan ha disfatto quel capolavoro, e non a caso i commercianti di Istanbul, Smirne, Ankara espongono il ritratto del Padre dei Turchi anche in implicita polemica con l’attuale presidente. Eppure in questi vent’anni molti, in particolare i ferventi musulmani ma non solo, hanno avuto la sensazione che grazie a lui il loro Paese sia tornato a contare. Si sia affrancato dall’egemonia americana. Abbia dialogato alla pari o quasi con i grandi della terra. E abbia usato la mano dura con i nemici o con quelli considerati tali, a cominciare dai curdi; e il fatto che il rivale Kiliçdaroglu fosse sostenuto anche da loro non l’ha aiutato al ballottaggio.

In questo ventennio la Turchia si è affermata come potenza su tutti gli scenari, dall’Africa all’Asia centrale, oltre che in Medio Oriente. Ha mosso il suo esercito, a volte in modo inaccettabile, altre volte rafforzando il ruolo nazionale. Si è data un’industria della difesa che esporta droni in molti Paesi. Si è digitalizzata: pressoché tutti i turchi hanno un’identità Spid, anche per questo non sono i brogli a decidere le elezioni. La compagnia aerea, la Turkish, e l’aeroporto di Istanbul sono tra i più grandi al mondo.

Poi certo Erdogan ha impresso al sistema una torsione personalistica. Ha violato libertà e costruito un’autocrazia; altro che «Dc islamica», come si erano illusi i commentatori. Ma ha dialogato con Merkel e con Xi, con i «nemici» Netanyahu e Bin Salman (da cui lo ha diviso la Libia), ha tenuto testa a Putin — con alterne vicende — e agli ayatollah, è stato un interlocutore per quattro presidenti americani e quattro francesi. E se metà Turchia continua a sostenerlo, è anche perché uno Stato per contare nel mondo moderno ha bisogno di un leader. Kiliçdaroglu avrebbe riavvicinato Ankara all’Occidente, con positive ricadute economiche; ma leader non è stato considerato. È giusto non avere nessuna simpatia ed essere duri con Erdogan, ma pure riconoscere che lui — alto, carismatico, stretta di mano calda da pranoterapeuta, lento nelle movenze, spietato nell’azione — leader lo è.

CORRIERE.IT

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