Governo: identità e riforme da fare

di Angelo Panebianco

Un vero bilancio sarà possibile sono quando si sarà conclusa la sua parabola. Ma forse l’esperienza del governo Meloni ci consentirà già prima di allora di comprendere quali siano i vincoli, i limiti e le possibilità di azione di un governo dell’Italia democratica nelle condizioni di oggi. Sulla carta, questo esecutivo gode di vantaggi superiori a quelli di molti che lo hanno preceduto: una forte maggioranza parlamentare, una opposizione debole, radicalizzata e divisa, l’aspettativa di una lunga durata.

È un insieme di condizioni che rende possibile tentare di rispondere a una domanda: ha ragione o torto chi pensa che i partiti (non importa il colore politico) se vincono le elezioni, siano sempre dotati di una personalità scissa? È vero o no che tali partiti siano, da un lato, spesso, ottime macchine elettorali, efficienti strumenti per la raccolta del consenso e, dall’altro, se si guarda alle loro performance come forze di governo, semplici gestori dello status quo (salvo qualche correzione al margine)? Intendiamoci su ciò che significa in questo caso status quo: significa che chi va al governo ne fa una occasione per sostituire personale nei posti-chiave di nomina governativa e che, per il resto identifica il «governare» nel modo in cui lo si è sempre inteso in Italia: spendere risorse per acquisire consenso. Gli interventi a margine sono quelli ad alto contenuto simbolico (es. abolizione del reddito di cittadinanza, o interventi normativi in tema di immigrazione). Gestione dello status quo significa che le strozzature, gli ostacoli, le disfunzioni, i lacci che da sempre opprimono il Paese non vengono presi di petto: una cosa che si potrebbe fare solo con un vasto piano di riforme le quali, identificate con la massima precisione possibile le cause delle strozzature, siano finalizzate a rimuoverle. Con effetti positivi che, inevitabilmente, si manifesterebbero non nel breve ma nel medio-lungo termine. L’assenza di quelle riforme è nascosta da un diluvio di annunci di provvedimenti che i ministri fanno e che, anche quando vengono attuati (la maggior parte degli annunci però si perde normalmente per strada) non intaccano, o intaccano solo in minima parte, le suddette strozzature e disfunzioni.

Traggo due esempi da altrettanti editoriali apparsi sul Corriere nell’ultima settimana.

Sabino Cassese (Corriere del 27 maggio) ha documentato come il recente decreto ufficialmente volto a rafforzare la capacità amministrativa dello Stato abbia la sola funzione di assumere nuovi dipendenti e di stabilizzare quelli assunti a tempo indeterminato. Osserva che il decreto non affronta alcuno dei problemi che determinano l’inefficienza dell’amministrazione. «Non è un aumento del numero di dipendenti pubblici — conclude Cassese — l’obiettivo a cui puntare ma piuttosto il miglioramento del servizio alla collettività e un miglior trattamento stipendiale per quelle categorie pubbliche che non hanno prospettive di carriera o per quelle qualifiche che trovano sul mercato condizioni migliori…». In sintesi: assunzioni al posto di interventi sulle disfunzioni dell’amministrazione. Come si è sempre fatto.

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