Corte dei Conti e Pnrr, irritazione a Palazzo Chigi: ogni giorno ce n’è una. Il sospetto che sia iniziata la campagna per le Europee
di Francesco Verderami
Le «manovre» attribuite ai politici, non più ai tecnocrati
Sul Pnrr la partita dell’Italia con
Bruxelles non è più una questione di regole e tantomeno di numeri: è
diventata una questione politica. Ne è convinta la premier, secondo la quale gli ultimi accadimenti sulla trattativa sono il segno che è iniziata la campagna elettorale per le Europee.
Ieri la dichiarazione di un portavoce della Commissione — critico con le misure del governo sulla Corte dei conti — ha convinto Meloni a reagire per sconfessare il rappresentante di Bruxelles.
Il fatto che la lunga nota di Palazzo Chigi confuti punto per punto
quella tesi, testimonia l’intenzione della premier di voler stoppare sul
nascere un’operazione politica di cui c’era sentore da giorni
nell’esecutivo e nella diplomazia. L’idea di far passare l’Italia come un Paese dove si smantellano le istituzioni di controllo è vissuta come il tentativo di accostare Roma a Budapest, a cui l’Europa ha sospeso i fondi «a tutela degli interessi finanziari» dell’Unione per non avere disposto «un controllo adeguato sulla spesa».
Una manovra spericolata e persino infondata, a sentire fior di giuristi e di leader dell’opposizione come Calenda, che ritengono corretta l’impostazione del governo. Tuttavia Meloni — constatato che «ogni giorno ce n’è una» — ha deciso di replicare, considerando strumentale l’atteggiamento della Ue sulle norme che regolano il ruolo di vigilanza della Corte dei conti. Siccome sono in vigore da tre anni, appare inspiegabile questa forma di doppiopesismo, dato che con i due precedenti gabinetti il tema non è mai stato sollevato: «A meno che il problema sia legato al nostro governo». È un esercizio retorico, perché in tal caso la spiegazione assumerebbe un chiaro significato politico, sarebbe la prova di come sia iniziata la campagna per le Europee. Palazzo Chigi continuerà a rispondere alle obiezioni in punta di regolamento, ma la premier si rende conto che sono mosse dettate dalla scadenza elettorale. E ritiene che trasmettano un segnale di grande debolezza da Bruxelles.
D’altronde, come sottolinea un autorevole ministro, «se le previsioni del voto dovessero realizzarsi e in Europa si concretizzasse una maggioranza tra Popolari, Conservatori e Liberali, cambierebbe tutto. Perciò gli avversari reagiscono». Ecco il motivo per cui oggi le manovre di disturbo verso Roma non sono più attribuite ai tecnocrati di Bruxelles, ribattezzati i «maestrini di Bruges» perché in quella città ha sede una famosa scuola di specializzazione della burocrazia europea. Stavolta il livello del conflitto è più alto: tocca i vertici dell’Unione. E non è un caso se il Ppe, scaldando i muscoli per la campagna elettorale, ha fatto stampare delle locandine contro il vicepresidente socialista della Commissione Timmermans. Così come non è un caso se la presidente popolare von der Leyen, in odore di conferma, si tiene prudentemente fuori dalla mischia.
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