L’Italia e le nascite: fare figli in tempi difficili
Oggi la situazione è peggiorata? Al contrario: è molto migliore. Due dati fra tanti: l’aspettativa di vita nel mondo è raddoppiata negli ultimi due secoli, dopo essere rimasta stabile per millenni. Il reddito pro-capite, nello stesso periodo, è aumentato di quattordici volte. Sappiamo che non tutto va bene, anzi: che molto va male. In Europa — angolo privilegiato del pianeta, come i migranti sanno e noi spesso dimentichiamo — negli ultimi tre anni abbiamo conosciuto pandemia, guerra, catastrofi naturali, sofferenze, crimini e abusi sulle donne. Ma non stiamo peggio di ieri: stiamo meglio.
E anche quando si stava peggio, ripetiamolo, i figli si facevano. I bambini nascono, oggi, in parti del mondo dove la vita è molto più dura che in Italia, da ogni punto di vista: sanitario, alimentare, economico, climatico, sociale, politico. Pensate a certe parti dell’Africa, alla Siria, all’Iran, all’Afghanistan, al Venezuela. I figli sono una speranza e, soprattutto nelle società agricole, una ricchezza.
Mio nonno paterno — porto il suo nome — era un agricoltore e ripeteva, in dialetto cremasco: «Bagài e teré ì è mai asé. La cà, dóma quela ‘ndu sa stà (Bambini e terreni non sono mai abbastanza. La casa, solo quella dove si sta). Il suo settimo figlio, mio padre, è nato nel gennaio 1917: in piena prima guerra mondiale, l’Italia flagellata dall’influenza spagnola. In cascina le stanze non erano riscaldate, la latrina era in cortile, le arance comparivano nelle feste comandate ed era impensabile avanzare cibo nel piatto. Milioni di famiglie così, però, hanno fatto figli, e quei figli hanno rimesso in piedi l’Italia.
Ora tocca ai loro nipoti e pronipoti. Non si facciano spaventare, i nuovi italiani: sono più forti di quanto pensano, e i loro figli saranno ancora più forti di loro.
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