Se il delitto diventa uno spettacolo pulp

Un fenomeno che viene da lontano oramai, e si intreccia con l’idea – anch’essa databile al decennio degli Ottanta – della «tv verità» che ripropone un evento senza filtri protettivi, né (ecco il compiaciuto e pericoloso equivoco) censure. E dato che le curve degli ascolti non prevedono dubbi o esitazioni, e si fondano sul meccanismo della “crescita (potenzialmente) illimitata” fino all’overdose, ecco che si può facilmente profetizzare che, in materia, al peggio non c’è (e non ci sarà…) mai fine.

Lo stiamo appunto toccando con mano – anche perché, come hanno ampiamente dimostrato gli studi comunicativi, il ruolo di gestori delle paure e delle insicurezze collettive detenuto dai media si accentua ancor più nelle fasi storiche di maggiore ansia sociale. Durante le quali la spettacolarizzazione del dolore svolge, al medesimo tempo, una funzione rituale e di rafforzamento del loro potere. Proprio quando, invece, si dovrebbe fare tesoro della massima di Ludwig Wittgenstein: «Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere».

LA STAMPA

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