Nicolas Schmit: “I salari aumentino con l’inflazione, sì alla settimana di quattro giorni”
Ha citato il salario minimo: in Italia non sembra raccogliere il consenso che ci si potrebbe aspettare. A che punto è il dibattito in Europa e perché in Italia la questione procede lentamente?
«Non tocca alla Commissione dire che si deve introdurre il salario minimo. È una decisione che deve essere presa dagli stati membri che ancora non ce l’hanno, come l’Italia. Ma dalle esperienze che abbiamo visto, penso al Regno Unito e alla Germania, possiamo dire che i salari minimi non distruggono il mercato del lavoro, non lo erodono. Al contrario hanno un ruolo economico e sociale molto importante».
In che modo?
«Il salario minimo, in settori dove le paghe sono tipicamente basse, può essere spunto per aumentare la produttività che è il grande problema della nostra economia. Una paga di base costringe a investire di più sulle persone e sulle competenze».
Oggi si registrano più posti di lavoro a tempo indeterminato, tuttavia il numero di famiglie in difficoltà resta elevato, un giovane su tre non lavora e non studia. Come si concilia un’economia che mostra segni di ripresa con gli allarmi che giungono dalla società?
«Il problema è dare valore al lavoro, creare coesione sociale. Il fatto di avere giovani che, pur lavorando, non possono permettersi di affittare un appartamento, non possono permettersi di avere dei figli, crea un circolo vizioso per la società, non solo per l’economia: a questo si collega anche il tema della crisi demografica. Come dice anche la presidente Ursula von der Leyen non si deve lavorare per stare in povertà».
La Banca d’Italia segnala come le donne con figli guadagnino il 50% in meno di quelle che non ne hanno. Ciò si aggiunge alle disparità di genere. Come se ne esce?
«Nel trattato di Roma, che è del 1957, si parla già di parità tra generi, ma siamo nel 2023 e ancora questa parte non ha trovato attuazione. Per la nostra economia è un danno. In un periodo in cui abbiamo carenza di competenze, proprio le donne sono spesso le migliori, poiché hanno sovente una istruzione superiore. Quanto alle mamme lavoratrici, il problema è che non abbiamo investito abbastanza nelle infrastrutture a sostegno dell’infanzia come gli asili nido. E il part-time non è una soluzione per avvicinarsi alla parità».
Che idea si è fatto della proposta di ridurre la settimana lavorativa a 4 giorni?
«Non sta a me o ai governi sviluppare tali iniziative, sono le parti sociali che dovrebbero decidere. Ma mi sembra un’ottima idea. Molte aziende la applicano già in Europa e nel Regno Unito. Uno studio dell’Università di Oxford mostra che laddove si applicano i 4 giorni il numero delle assenze diminuisce, l’atmosfera in azienda migliora, la produttività aumenta».
Come cambia il lavoro con la diffusione dello smart working?
«Abbiamo introdotto lo smart working durante la pandemia e ha salvato la nostra economia. Rimarrà come tendenza ma credo che non si possa prescindere, almeno in parte, dal lavoro in presenza per preservare una comunicazione diretta nelle aziende, che restano comunità di persone che hanno la necessità di discussione e condivisione. In ogni caso fare telelavoro non significa essere a disposizione 24 ore su 24. Vanno mantenute regole e garanzie, occorre rispettare il patto sociale e i diritti».
Il Far West c’è però per i rider: gente pagata male che svolge un servizio importante. Cosa possono fare Bruxelles e gli stati?
«Non sono contrario alle piattaforme digitali. Ma ci sono due questioni. Non pagano in modo equo chi effettua le consegne evidenziando una concorrenza sleale con i ristoranti che pagano i camerieri in modo adeguato. Seconda cosa: non si può essere licenziati perché un algoritmo reputa che la produttività non sia adeguata. Servono condizioni eque, non è facile ma lavoreremo in tal senso».
Il governo ha esteso l’utilizzo dei voucher. Cosa ne pensa?
«È un sistema che in molti paesi viene introdotto in contesti di elevata disoccupazione. E in tali casi dico: perché no? Ma dev’essere un approccio temporaneo, di transizione, magari legato a particolari tipi di servizi, perché crea modalità di lavoro molto precarie».
Nel frattempo avanza anche l’intelligenza artificiale: che impatti avrà sul lavoro?
«Ovviamente un impatto ci sarà, ma è difficile dire adesso in quali termini. Non credo però che distruggerà posti di lavoro. Di certo, almeno in alcuni settori, cambierà il modo di lavorare. Credo che comunque il punto sia un altro. Se queste tecnologie, come sembra, aumenteranno la produttività, dobbiamo chiederci come saranno suddivisi i vantaggi».
A cosa si riferisce?
«Non penso che tali beneficidebbano andare solo agli azionisti per farli guadagnare di più. Ritengo invece che debbano essere condivisi con i lavoratori, in parte permettendo loro di ridurre il tempo dedicato al lavoro. Un modo forse per rendere più agevole, come ha di recente ipotizzato il premio Nobel Pissarides, arrivare alla settimana di quattro giorni».
LA STAMPA
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