Giovanni Melillo: “Un rischio abolire i controlli sul Pnrr, ne approfittano corrotti e mafiosi”

Donatella Stasio

Il governo cancella i controlli della Corte dei Conti e vuole eliminare l’abuso d’ufficio? Non è credibile pretendere un passo indietro dei controlli esterni senza, al tempo stesso, rafforzare le linee di controllo interno. Il Pnrr impone rapidità dei processi decisionali? Il dovere di impiegare efficacemente le risorse viaggia con quello di farlo bene, evitando che i soldi si disperdano nei mille rivoli degli abusi e della corruzione o finiscano nelle mani della mafia.

L’attualità irrompe con forza nel grande studio del Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, al secondo piano dell’edificio seicentesco di via Giulia, a Roma, che papa Innocenzo X, dopo aver verificato le condizioni disumane delle carceri di Tor di Nona, fece costruire per ospitare le “Carceri nuove”. Lì, l’umanità sarebbe stata al centro del sistema penitenziario. Lì, da poco più di un anno, ha traslocato Giovanni Melillo dalla Procura di Napoli, e al centro della sua nuova funzione c’è una parola chiave fondamentale, che poi è una postura, se non un dovere istituzionale: la cooperazione, il coordinamento, la leale collaborazione. Anzitutto tra uffici giudiziari ma anche con altre istituzioni. «Oggi più che mai – dice – c’è bisogno di una forte coesione istituzionale e politica per affrontare le nuove sfide del terrorismo e della criminalità organizzata». Ed è questa la chiave – collaborazione e non contrapposizione – con cui Melillo invita a leggere anche i “famigerati” controlli – penali, di organi di garanzia o di autorità indipendenti – che il governo vive invece come “lacci e lacciuoli”.

Signor procuratore, “lacci e lacciuoli” è l’espressione usata per definire il controllo concomitante della Corte dei Conti sul Pnrr, infatti cancellato. La vicenda tradisce una sorta di insofferenza a qualunque intervento esterno che intralci l’azione di governo. Lei che idea si è fatto?
«La stessa che ho recentemente espresso dinanzi alla Commissione Giustizia della Camera, a proposito dei disegni di legge volti a cancellare o modificare le norme in materia di abuso d’ufficio. In generale, considero legittima ogni discussione sull’opportunità di definire meglio i rapporti tra la sfera decisionale politico- amministrativa e le relative forme di sindacato giurisdizionale o comunque indipendente. Tuttavia, personalmente tendo a considerare la rivendicazione di un primato dei poteri discrezionali propri della pubblica amministrazione tanto più credibile se alla richiesta di arretramento dei controlli esterni si accompagna un deciso rafforzamento delle linee di controllo interne alla pubblica amministrazione. Ma non mi pare che di ciò ci sia traccia significativa nella storia, soprattutto recente, della regolazione di quelle funzioni pubbliche. E anche questo, forse, concorre ad alimentare una spirale polemica senza fine, ma anche un’idea di efficienza dell’azione amministrativa nutrita di sospetti verso doverose funzioni di controllo».

Così, però, si sta muovendo il governo, anche sull’abuso d’ufficio: ora si parla di una riforma generale dei reati contro la pubblica amministrazione ma non una parola sui controlli interni. Può funzionare?
«È possibile tentare di raggiungere un maggiore equilibrio del sistema dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, ma mi piacerebbe che questa discussione riguardasse anche le lacune normative che ostacolano le indagini, come quelle rivelatesi nella disordinata stagione del massiccio ricorso ai finanziamenti edilizi e pandemici».

Restiamo ai controlli sul Pnrr, alcuni cruciali. Ha senso chiederne un allentamento, in generale, per poter spendere quei fondi?
«Per quanto comprenda tutta la serietà della preoccupazione di non rallentare l’impiego di quelle enormi risorse finanziarie, faccio fatica ad accettare una radicale contrapposizione fra la rapidità dei processi decisionali della pubblica amministrazione e la stessa idea di controlli efficaci, poiché i controlli sono parte essenziale dei processi di spesa pubblica. Il Paese ha certo il dovere di impiegare al più presto quelle risorse, ma anche di farlo bene, evitando che esse si disperdano nei mille rivoli degli abusi e della corruzione ovvero finiscano nelle mani della criminalità mafiosa. Se si riflettesse sul fatto che il 70% delle opere pubbliche incompiute si trova nelle regioni meridionali – evidente riflesso, da un lato, di una storica, maggiore debolezza in quelle aree del Paese delle funzioni pubbliche e, dall’altro, della maggiore gravità dei relativi fenomeni criminali – forse si attenuerebbe la contrapposizione polemica fra la necessità di spendere presto e il dovere di farlo anche bene. Diverrebbe magari possibile anche ragionare intorno a un’idea condivisa di controlli non paralizzanti ma sempre rigorosi ed efficienti. E lo dico da magistrato preoccupato anche dal rischio che all’indebolimento dei controlli preventivi segua la drammatizzazione dell’impatto di quelli affidati al giudice penale, con tutto il carico di contrapposizione polemica fra istituzioni della Repubblica che puntualmente ne seguirebbe».

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