Giovanni Melillo: “Un rischio abolire i controlli sul Pnrr, ne approfittano corrotti e mafiosi”

Mi faccia un esempio di controlli interni non paralizzanti.
«Molte tensioni potrebbero essere allentate applicando il principio che chiunque riceve denaro pubblico debba dare conto di come lo impiega e che l’uso di tale denaro sia tracciabile, agevolando i controlli successivi. Ma anche nei limitati campi nei quali oggi è sancito l’obbligo di usare conti correnti dedicati, appunto per consentire il monitoraggio dei relativi flussi finanziari, come, ad esempio è previsto sin dal 2014 per le imprese che partecipano alle grandi opere, quel sistema di controllo funziona poco e male. Eppure si tratta di regole imposte dall’Unione europea, che consentirebbero efficaci controlli, senza frenare l’azione della pubblica amministrazione e delle imprese e anzi contribuendo a garantirne correttezza e trasparenza. La stagione del Pnrr imporrebbe di estendere e dare efficienza a questo tipo di controlli. Le proposte tecniche per farlo non mancano».

Il suo ragionamento, come del resto l’impostazione dell’Europa, vede nel controllo una forma di collaborazione necessaria all’efficacia del risultato, mentre nel nostro caso sono vissuti in chiave di contrapposizione. È una visione distorta, che non riesce a cogliere il senso della collaborazione istituzionale, le pare?
«In generale, mi sembra prevalere un tratto comune nella legislazione degli ultimi anni: una sorta di rassegnata tendenza a sacrificare i controlli sull’altare della necessità di sostenere l’economia, dimenticando che l’indebolimento dei controlli, innanzitutto quelli spettanti alla stessa pubblica amministrazione, riduce l’efficacia stessa delle riforme e delle manovre finanziarie, acuisce le disuguaglianze sociali, sacrifica la trasparenza del mercato, agevola l’espansione affaristica delle mafie e, infine, indebolisce l’autorevolezza della pubblica amministrazione e la fiducia dei cittadini nello Stato».

Quanto sono funzionali, questi controlli, anche alla lotta alla criminalità mafiosa?
«La relazione diretta fra l’efficacia dei controlli interni alla pubblica amministrazione e la capacità del nostro sistema di contrastare la criminalità mafiosa può essere osservata anche attraverso la lente offerta dal ricorso allo scioglimento delle amministrazioni locali sottoposte a condizionamenti mafiosi. Un fenomeno certo agevolato dalla debolezza delle funzioni di controllo, che consente di fotografare un altro elemento: il crimine mafioso è largamente proiettato verso il condizionamento corruttivo della pubblica amministrazione e il controllo di sempre più estese aree del tessuto produttivo. Le stesse leadership criminali si selezionano sulla base delle attitudini a governare i processi decisionali e le tecnologie essenziali alla gestione delle reti d’impresa che ruotano attorno ai cartelli e che attraversano quasi tutti i settori economici, dal commercio degli idrocarburi a quello dei metalli, dagli appalti pubblici alla gestione del ciclo dei rifiuti, dal lavoro interinale alla logistica e alla distribuzione commerciale. L’intera architettura del sistema delle frodi fiscali e delle false fatturazioni ormai ruota intorno a circuiti societari largamente controllati da camorra, ’ndrangheta e Cosa Nostra, integrandosi strutture e strategie criminali che immaginiamo separate e lontane. Le imprese mafiose attraggono nella loro sfera d’influenza imprese che mafiose non sono, ma che praticano lo stesso linguaggio della frode fiscale e della corruzione. L’identità di linguaggi moltiplica la capacità di espansione affaristica delle mafie nell’Italia centro-settentrionale come nel resto dell’Europa.

Visto che parla di “identità di linguaggio”, non posso non chiederle che impressione le abbia fatto sentir definire “pizzo di Stato” le tasse che i commercianti devono pagare.
«Ci mancherebbe che un magistrato si pronunciasse anche sulle forme della comunicazione politica! Ma anche da cittadino mi imporrei di non guardare ai dati polemici, preferendo confidare nella preservazione e nel consolidamento di un quadro di forte coesione istituzionale e politica sul pur accidentato terreno del contrasto delle mafie e del terrorismo. Diversamente, ogni indagine e ogni processo, come ogni impegno della società civile, rischierebbero di rivelarsi vani. Di quella coesione oggi più che mai vi è grande bisogno, anche per affrontare le nuove sfide del terrorismo e della criminalità organizzata, come quelle inevitabilmente conseguenti alla destabilizzazione di vaste aree dell’Europa e del Mediterraneo e all’ingresso in scena di strategie e tecnologie capaci di sfuggire ad ogni controllo».

A proposito di coesione istituzionale, le bombe del 1993 a Roma, Firenze e Milano reclamano ancora verità e giustizia, perché dietro quegli attentati non c’era solo la mafia, come peraltro intuirono subito gli inquirenti, che si misero a disposizione della Commissione antimafia, all’epoca guidata da Forza Italia con una maggioranza di centrodestra, per un accertamento storico-politico. Lei ha ricordato che «quell’ideale passaggio di testimone non si realizzò mai» e che lo sviluppo dell’indagine su un altro piano fu lasciato cadere «silenziosamente». Oggi ci sono le condizioni per raccogliere quel testimone e per una leale collaborazione istituzionale?
«Nel mio intervento a Firenze ho indicato le ragioni che, a mio parere, impongono di riconoscere che la campagna stragista del 1993 non possa ricondursi soltanto alle strategie criminali tipiche di un’organizzazione mafiosa, sia pure raffinata come Cosa Nostra, inserendosi invece in un più ampio contesto di destabilizzazione politica e istituzionale. Lo riconobbero immediatamente importanti figure politiche del tempo, come Carlo Azeglio Ciampi e Bettino Craxi, indicando in modi diversi, ma ugualmente chiari, la strada della responsabilità delle istituzioni politiche nel comprendere e contrastare quei terribili rischi per la nostra democrazia. Strada e responsabilità chiare anche a quei magistrati, come Gabriele Chelazzi e Piero Vigna, consapevoli della necessità che alle indagini della magistratura si affiancassero le ricostruzioni storiche e politiche nelle quali la magistratura non può avventurarsi. Oggi la situazione è notevolmente diversa e più complessa rispetto al 2002, ma resta intatta l’esigenza di non affidare soltanto alle indagini e ai processi la ricerca della verità. Ciò, tuttavia, esige, ora come allora, una corretta e reciprocamente rispettosa collaborazione fra magistratura e istituzioni politiche, necessaria per evitare interferenze e sovrapposizioni reciproche. Un problema molto serio, la cui soluzione dipende dalla condivisione di un comune dovere di collaborazione istituzionale, essenziale perché indagini e attività con finalità diverse in campi così delicati e controversi possano costantemente raccordarsi».

Lei ha già conosciuto o incontrato la nuova presidente della Commissione antimafia, Chiara Colosimo?
«Abbiamo avuto un primo e assai positivo contatto. Posso dire che avrà certamente tutta la collaborazione istituzionale possibile da parte del mio Ufficio e delle Procure distrettuali, ma anche che ha sin da ora tutta la mia personale, doverosa fiducia».

Peraltro, questa Commissione è nata tra le polemiche, sollevate anche dai parenti delle vittime delle stragi: cinque membri sono imputati e indagati per corruzione e concussione e la presidente è nel mirino per le sue frequentazioni di ex terroristi neri nell’ambito di progetti sulla risocializzazione dei detenuti.
«Non ho alcun interesse per le contrapposizioni polemiche e nessuna ragione per commentarle. La Presidente Colosimo è stata eletta dal Parlamento e, ripeto, avrà tutta la nostra collaborazione, certo che anche la Commissione da lei guidata offrirà cooperazione e sostegno al difficile lavoro della magistratura. Potrei aggiungere che, anche da Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, ho sempre tratto molti elementi di riflessione dal dialogo con persone – come Sergio D’Elia, presidente di “Nessuno tocchi Caino” – che, pur se in passato condannate per reati di terrorismo, sono impegnate nell’associazionismo civile che opera per l’umanizzazione del sistema penitenziario e l’effettività della funzione di rieducazione della pena».

Torniamo al coordinamento: la collaborazione istituzionale è una regola aurea ma, storicamente, anche la più bistrattata.
«Talvolta, le Procure sono venute a conoscenza di iniziative delle Commissioni parlamentari antimafia in ritardo e in modo incompleto, la qual cosa certo non ha aiutato a costruire saldi vincoli di reciproca fiducia e a governare meglio le esigenze di segretezza delle rispettive indagini. Questo rischio naturalmente riguarda anche i rapporti tra uffici giudiziari, ma quando entrano in campo le inchieste parlamentari i problemi diventano più delicati e complessi. Nella sua dimensione esclusivamente giudiziaria, il coordinamento delle indagini è sostenuto dalle funzioni di garanzia della Procura nazionale antimafia e antiterrorismo. Il rapporto con la Commissione parlamentare antimafia esige invece di poter confidare che l’esercizio delle prerogative sovrane del Parlamento sia sostenuto da una costante attenzione ad evitare inutili tensioni con la giurisdizione».

Nella precedente legislatura come ha funzionato il coordinamento?
«Quel che posso dire è che la cooperazione fra istituzioni diverse dipende, al di là delle volontà e degli sforzi individuali, dal clima che si crea attorno al lavoro di una istituzione parlamentare storicamente così importante. La gravità dei fenomeni mafiosi imporrebbe che prevalessero sempre doveri e responsabilità comuni, al di là delle divisioni politiche».

LA STAMPA

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