L’attacco del governo ai poteri neutri dello Stato
Sta di fatto che da Meloni parte una risposta rabbiosa a un’Europa “Carolingia” effettivamente malridotta, tra le convulsioni di Macron e le indecisioni di Scholz, ma che finora non ha affatto lanciato un’offensiva anti-italiana, meno che mai “a difesa dell’eroica Corte dei conti”. E allora si ripropone la ferale domanda: perché il governo alza il livello dello scontro? Non c’è una risposta univoca. Ma ci sono un sospetto e un pericolo.
Il sospetto è che, sul piano internazionale, Meloni alzi il polverone per nascondere l’unica verità che le è fortemente sgradita: purtroppo per il Paese, il Pnrr sarà un parziale fallimento, non spenderemo mai i 209 miliardi, se va bene ne incasseremo la metà, saremo costretti a rinunciare a diverse opere pubbliche sul fronte ambientale e digitale, e i Patrioti in crisi di risultati si preparano al rituale italico dello scaricabarile. La colpa non è loro ma è degli “altri”: che si chiamino Conte o Draghi, che siano le toghe o gli eurocrati. Sarebbe un dramma, perché ancora una volta questo ceto politico dominante – con la sua pretesa “egemonia culturale” sovranista incardinata sulla triade Patria-Nazione-Famiglia di cui ha scritto mirabilmente Daniela Padoan – dimostrerebbe di non aver capito che gli impegni presi a livello comunitario e le grandi riforme strutturali e infrastrutturali che avevamo promesso non “ce le chiede l’Europa”, ma servono all’Italia.
Il pericolo è che, sul piano interno, i colpi di piccone alla Corte dei conti siano solo una tappa di quella “involuzione autoritaria” temuta da Romano Prodi in un’altra intervista al nostro giornale. Il processo è in atto, e solo i ciechi fingono di non vederlo. A dispetto del comunicato scritto in giuridichese da Palazzo Chigi, qui la posta in gioco non sono i controlli preventivi, “concomitanti” o successivi, e neanche l’eventuale responsabilità erariale dei pubblici ufficiali che dovessero intralciare l’attuazione del Pnrr. Qui in ballo ci sono allo stesso tempo, il diritto e la politica. La Costituzione formale e quella materiale. C’è il controllo in sé, tra tutte le istituzioni repubblicane. C’è il bilanciamento dei poteri, che è l’essenza del Costituzionalismo. C’è la difesa dalla “dittatura delle maggioranze” di cui scriveva Alexis de Tocqueville, che è il principio vitale delle liberal-democrazie. Tutto questo, con le destre al potere di oggi, è di nuovo sub iudice.
Lo dimostrano i conflitti già esplosi. Prima della Corte dei conti, e ora anche della Commissione Ue, era toccato proprio alla Banca d’Italia, processata dal plenipotenziario meloniano Giovambattista Fazzolari solo per aver espresso giudizi preoccupati sulle coperture finanziarie dell’ultima legge di bilancio. Poi è stato il turno dell’Autorità Anti-corruzione, rea di aver suggerito cautela nella riscrittura del nuovo codice degli appalti, e dunque meritevole di epurazione totale secondo il Capitano della Lega Nord e Cemento Matteo Salvini. Per non dire del sottile “filo nero” col quale è stata perimetrata la nuova Commissione Anti-Mafia, al cui vertice siede Chiara Colosimo, sodale dell’ex Nar Luigi Ciavardini, e alla cui base operano almeno sei “onorevoli” indagati o inquisiti per corruzione e concussione. E per non parlare dell’occupazione manu militari della Rai, dove è saltata persino l’ultima parvenza di pseudo-pluralismo garantito dalla lottizzazione tripartita delle tre reti, e dove ora impera il Pensiero Unico della Nazione, di cui è depositario il putinista-duginiano e post-missino Giampaolo Rossi.
Ma presto potrebbero dimostrarlo soprattutto i conflitti futuri. C’è quello, latente e destabilizzate, con il Presidente della Repubblica, che ormai per nostra fortuna fa da controcanto sistemico, costituzionale e valoriale, alle fumisterie ideologiche e alle corbellerie storiche della maggioranza: quanto reggerà questa difficile “coabitazione all’italiana”, che al di là del galateo personale non ha quasi nulla a che vedere con la “leale collaborazione” istituzionale? E poi c’è quello, incombente e inquietante, con la Consulta, che il prossimo anno dovrà eleggere ben sei nuovi giudici: la presidente del Consiglio adotterà il metodo che Trump ha usato con la sua Corte Suprema – trasformata nel suo “braccio armato della legge” – per militarizzare il collegio dei magistrati costituzionali in vista dell’eventuale sindacato di legittimità sulla riforma presidenzialista?
Conosco già le obiezioni dei soliti “cruciferi e turiferari” (come li chiamava Giuseppe D’Avanzo) che oggi si accodano in preghiera alla processione meloniana come ieri salmodiavano dietro a quella berlusconiana. Ancora con la storiella del “rischio autocratico”? La democrazia, come il debito ai tempi di Reagan, è sufficientemente grande per badare a se stessa. A me sembra la solita, insopportabile Grande Banalizzazione. Ridiciamolo, a scanso di equivoci: nessuno teme le camicie nere pronte a marciare su Roma. Ma la democrazia è limite, i limiti vanno difesi. Se nessuno lo avesse fatto, anche all’epoca del Cavaliere di Arcore, non sappiamo dove ci avrebbe portato il berlusconismo da combattimento, con conflitto di interessi incorporato. Oggi, allo stesso modo, dobbiamo chiederci – come fa Gustavo Zagrebelsky (“Tempi difficili per la Costituzione”, Laterza) – se l’idea cui appartiene il nostro futuro è la cosiddetta “democrazia decidente”, imperniata sullo schiacciamento dei partiti che hanno perso le elezioni a vantaggio esclusivo di chi le ha vinte. Se vogliamo ancora batterci per la democrazia liberale e parlamentare, quella del compromesso kelseniano, oppure se dobbiamo rassegnarci alla democrazia del partito personale e del suo Capo. Noi sappiamo da che parte stare. Ma lo sa anche “la Capa”. Per questo la temiamo.
LA STAMPA
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