Il Pnrr e la «sindrome della caldaia»

di Federico Fubini

In questo weekend di inizio giugno avrete senz’altro programmi più gradevoli.

Ma prendetevi cinque minuti, se volete, per visitare i siti dedicati al Recovery Plan dall’Italia e dalla Grecia. Il confronto ha senso e non solo perché siamo i due Paesi con il debito pubblico più alto in Europa, destinati a investire ben poco sui nostri obiettivi strategici se non ci fossero i fondi europei. Siamo anche due fra i Paesi per i quali il peso dei prestiti e dei sussidi in arrivo da Bruxelles è maggiore, in proporzione all’economia, dunque due per i quali l’impatto atteso sulla crescita è più alto.

Bene, partite da «Greece 2.0». Non solo il sito sembra aggiornato a ieri, con tutte le informazioni in dettaglio. Soprattutto, per quello che vale, trasmette un senso di entusiasmo. Sembra che i greci ci credano, abbiano voglia di realizzarlo questo piano, di andare avanti. E sarà pure marketing politico, ma nella homepage c’è il premier Kyriakos Mitsotakis fotografato tutto sorridente che stringe la mano della presidente della Commissione Ursula von der Leyen davanti a un cantiere del Piano.

Poi passate su «Italia Domani». Per carità: bello, elegante. Sembra fermo a due anni fa (malgrado gli aggiornamenti, certo). Soprattutto non c’è un volto, non trasmette alcuna sensazione
che sia lì per raccontare delle realizzazioni, tantomeno una svolta. Non dà alcun senso di entusiasmo dell’avere 200 miliardi di euro a condizioni incredibilmente vantaggiose per cambiare l’Italia.

Ogni giorno che passa il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) sembra sempre più qualcosa che ci tocca fare, un’altra medicina dell’Europa da buttare giù, e sempre di meno qualcosa di nostro e nel nostro interesse.

Se questa è l’idea, allora siamo fuori strada. A questo punto forse è anche giusto dirsi che il Pnrr non è un optional. Non è qualcosa che se la facciamo, bene; ma se non la facciamo, si va avanti comunque senza intrusioni europee. Non è affatto detto che abbiamo il lusso di scegliere e che se ce lo perdiamo — anche in parte — almeno ci siamo tolti di torno qualche burocrate di Bruxelles. Non ce l’abbiamo questo lusso perché l’intera traiettoria di crescita dell’economia e sostenibilità del debito pubblico in Italia in questo e nei prossimi anni dipende dalla realizzazione concreta e efficace di quel Piano. Il Documento di economia e finanza del governo prevede da adesso al 2026 una crescita cumulata del 4,9%, sulla quale si imperniano la discesa del debito, il contenimento del costo in interessi e dunque le condizioni a cui prenderanno prestiti le imprese e le famiglie nei prossimi anni. Quel numero — più 4,9% di crescita al 2026 — è il nostro architrave. Ma è appena il caso di aggiungere che due terzi di quella crescita (più 3,2%) vengono dalla totale ed efficace realizzazione del Pnrr secondo le stime, ehm, del sito «Italia Domani».

E non solo non possiamo permetterci il lusso di toglierci di torno questa scocciatura di dover spendere duecento miliardi di euro. Non abbiamo neanche il lusso di usare il Piano come un punching ball per regolamenti di conti politico-amministrativi fra fazioni. L’opposizione che quasi gioisce se qualcosa va storto (o se da Bruxelles arriva qualche proverbiale bacchettata) ma per il resto, per lo più, se ne lava le mani. Il governo che a momenti sembra più impegnato a scaricare il barile su chi lo ha preceduto che a risolvere problemi e dare una visione dei prossimi passi. Una premier che sarà sicuramente impegnata nel Piano, ma all’esterno dà l’impressione di esservi meno coinvolta dei suoi predecessori.

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