Egemonia di potere
Giovanni De Luna
La lotta contro l’egemonia culturale della sinistra è un artificio retorico utilizzato dal governo di destra di Giorgia Meloni per nascondere una lucida e determinata corsa all’occupazione dei posti di potere. È una realtà che emerge innanzitutto dalla strumentale retorica vittimaria che accompagna una narrazione nella quale, ad esempio, il grande studioso del fascismo, Renzo De Felice, viene citato come una tra le vittime più illustri dello strapotere culturale esercitato dalla sinistra. Come esempio, però, non è dei migliori. A partire dagli anni ’70 De Felice infatti assunse un ruolo di primissimo piano nella distribuzione delle cattedre universitarie, proiezione accademica del rilievo assunto dalle sue posizioni nel dibattito storiografico sul fascismo. La monumentale biografia di Mussolini fu pubblicata da Einaudi, un feudo consolidato della sinistra, mentre la sua celebre intervista sul fascismo, rilasciata a Michael Ledeen, uscì in un libretto da Laterza, altra casa editrice sicuramente di sinistra. La vulgata televisiva sul fascismo (e su Mussolini «che aveva fatto anche cose buone») si fondava in gran parte sulle sue tesi interpretative e, insieme ai suoi allievi, De Felice uscì sostanzialmente vincitore dal conflitto mediatico che allora si scatenò nella grande arena dell’uso pubblico della storia proprio intorno a quelle tesi.
Intendiamoci, De Felice fu un grande studioso e le sue ricerche archivistiche restano ancor oggi un punto fermo. Ma non fu certo una «vittima» e farne il centro di una lamentazione vittimistica e autoconsolatoria della destra è, nei fatti, profondamente sbagliato.
Così come è sbagliato e riduttivo far risalire l’egemonia culturale della sinistra nell’Italia repubblicana (Giordano Bruno Guerri intervistato da Caterina Soffici su La Stampa) a un accordo spartitorio tra De Gasperi e Togliatti (a me la politica a te la cultura). Storicizzando il concetto di egemonia culturale (lo ha fatto Giuliano Ferrara sull’ultimo numero di «Vita e pensiero») si possono infatti distinguere le diverse «fasi» che ne scandiscono il percorso a partire – per quanto riguarda l’Occidente europeo – da quella della Chiesa cattolica messa in crisi dal «secolo dei Lumi» e dall’irruzione della «ragione», in grado allora di soppiantare la «fede» nel cuore e nelle speranze degli uomini e delle donne che abitavano il nostro pianeta. In questo scenario, più che da una grottesca prima edizione del manuale Cencelli, l’egemonia culturale scaturì dalla congiuntura politica segnata dalla fine della seconda guerra mondiale e dalla rovinosa sconfitta militare del fascismo e del nazismo. Con l’esaurirsi della tragica esperienza dei totalitarismi di destra, la prospettiva di poter effettivamente e liberamente partecipare alle decisioni politiche si accompagnò a un tumulto di passioni civili che fecero della democrazia il volano per attivare le energie collettive che si annidavano nelle pieghe più riposte dell’organismo sociale. Fu quella una democrazia in cui il rifiuto della passività della delega e del consenso totalitario fu sorretto da istituzioni animate da una forte carica pedagogica di educazione alla cittadinanza. Era quella una democrazia che rilanciava i progetti dell’artificialismo politico, del dominio dell’homo faber sulla natura e sul mercato, sottraendoli però agli strumenti della dittatura e coniugandoli con inalienabili diritti di libertà. Certamente la sinistra se ne giovò, soprattutto grazie alla sua capacità di proporsi come una sfida al vecchio ordine fondata su una irrefrenabile voglia di futuro, di progetti, di sogni, di utopie.
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