Alluvione in Romagna, di chi è la colpa
Sui fiumi il federalismo non funziona
Negli anni ‘90 arriva la spinta federalista e nel 2001 — con la modifica del titolo V e successivo decreto del 2006 — Regioni, Province e Comuni si prendono la gestione del territorio e la dividono lungo i confini amministrativi. La legge del 1989 viene svuotata di poteri, insieme alla visione unitaria. Il risultato è che se una Regione, per evitare allagamenti, deve rompere un argine che sta su un confine, l’altra Regione si oppone perché ritiene che i suoi campi siano più utili di quelli della Regione adiacente. All’interno di una stessa Regione le competenze vengono poi a loro volta spezzettate. Quindi nel caso della Romagna, per esempio, l’ufficio della Provincia di Ravenna si occupa del tratto ravennate, quello di Forlì del tratto di Forlì, di quello che va verso Bologna l’ufficio di Bologna. Tutti questi uffici però sono inquadrati dentro l’Agenzia Sicurezza Territoriale e Protezione civile regionale che, essendosi sempre occupata di emergenza, fa fatica a fare anche prevenzione: non ha abbastanza geologi e ingegneri idraulici, e la figura del sorvegliante ambientale è stata abolita.
La sostanza del problema è che ogni Regione si preoccupa del suo territorio, fregandosene dei danni che può provocare alla Regione confinante.
Lo spezzatino
Quindi c’è un ente che si occupa del luogo dove scorre l’acqua, poi c’è l’Arpa che si occupa della qualità dell’acqua, ma a cui è stata affidata anche la competenza sulle concessioni di estrazione. In pratica se devo innaffiare i miei campi prendo l’acqua dal fiume nella quantità e nei tempi decisi da Arpa e non dall’Autorità di bacino, che ogni anno deve fare appelli (che nessuno ascolta) perché c’è troppo prelievo. Certo in Romagna gli uffici preposti hanno operato al massimo delle loro possibilità: la portata dell’evento è stata tale che di più non si poteva. La sostanza del problema è che ogni Regione si preoccupa del suo territorio, fregandosene dei danni che può provocare alla Regione confinante. In questo quadro di disonestà politica e culturale avvengono le tragedie evitabili e si amplificano quelle provocate dagli eventi estremi.
Non ci sono più i contadini a curare e manutenere il territorio; le terre le coltivano i terzisti e i fossi non li scava più nessuno.
Frane: cause e concause
La Pianura Padana è la zona d’Italia che più ha sofferto i due anni di siccità: il terreno troppo secco non ha assorbito e i temporali si sono scatenati sulle colline già naturalmente fragili perché argillose. Aperte 936 frane e ad oggi 31 frazioni sono isolate con 331 abitanti raggiungibili solo con mezzi pesanti. Non ci sono più i contadini a curare e manutenere il territorio; le terre le coltivano i terzisti e i fossi non li scava più nessuno. Un destino comune a tutte le aree montane e collinari italiane, dove i piccoli paesi si sono via via spopolati anche perché ha cominciato a chiudere la scuola, poi l’ufficio postale, l’ambulatorio e non arriva più il trasporto pubblico. In aggiunta la manutenzione alla rete di strade è diventata scarsa o inesistente da quando per legge (2014) le Province state svuotate di risorse.
La legge sul consumo di suolo
Dopo Lombardia e Veneto Ispra mette l’Emilia-Romagna al terzo posto per consumo di suolo. Una legge nazionale sulla sua riduzione ancora non c’è. L’Emilia-Romagna si è fatta la sua (legge n° 24) e approvata a maggioranza nel 2017 ed è la prima a darsi un limite massimo del 3% della superfice urbanizzata. Se si va a leggere bene riguarda sostanzialmente gli insediamenti residenziali e prevede un periodo transitorio di 5 anni che diventano 6 grazie a un emendamento del consigliere leghista Pompignoli, sostenuto dai colleghi più cementiferi del Pd. Alla Camera il 30 maggio quattordici deputati della Lega presentano un emendamento dal titolo: «Disposizioni urgenti per la mitigazione del rischio alluvioni». La sostanza è questa: i presidenti delle Regioni e i sindaci possono autorizzare in via d’urgenza soggetti pubblici e privati a estrarre sedimenti, sabbia e ghiaia dal letto dei fiumi e torrenti fino al ripristino del livello storico (quale?) dell’alveo. Il nulla osta degli enti interessati deve pervenire entro 30 giorni, decorso il termine vale l’assenso. L’emendamento viene dichiarato inammissibile, ma probabilmente verrà ripresentato. Il professor Roberto Passino, fondatore dell’Istituto Ricerca sulle Acque del Cnr nonché segretario generale dell’Autorità di bacino del Po dal 1991 al 2002 e che ha lottato per anni contro i tentativi di corruzione da parte dei cavatori, dichiara: «Questa è un’attività rigidamente normata perché l’alveo dei fiumi, privi di ghiaia e sabbia a causa dei continui prelevamenti, aumenta la velocità dell’acqua e il pericolo. Ne emerge che lo scopo non sia quello di pensare alla sicurezza, ma quello di aumentare il potere delle Regioni».
Il Commissario che non c’è
E ora c’è da ricostruire la Romagna. È evidente che non si potrà fare tutto negli stessi luoghi: la natura ha dimostrato che non può essere piegata alla volontà dell’uomo. Per fare queste operazioni ci vuole un Commissario e quello naturale sarebbe il Presidente della Regione Bonaccini, proprio perché il suo territorio lo conosce bene. Salvini è contrario, ma non spiega il perché. Alla luce di quanto ricostruito è complicato attribuirgli colpe che potevano evitare i danni. Sta di fatto che la Presidente del Consiglio ha messo la questione in stand by. Chiunque arrivi si farà la sua struttura, ad operare saranno i funzionari di Comuni, Province e Regione, che contemporaneamente rispondono ai loro sindaci e presidenti. Quindi si va alla duplicazione dei centri di responsabilità rallentando il processo. Suona come una cinica rivalsa politica mentre un’intera regione sta offrendo.dataroom@corriere.it
CORRIERE.IT
Pages: 1 2