Arena climatica e voto europeo. Destre in marcia, sinistre ferme
In un pianeta che vede la Cina riaprire le sue centrali a carbone e l’India puntare sul fossile a manetta, l’Europa si impegna a ridurre le emissioni del 55% entro il 2030 e a raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. A marzo il Parlamento Ue ha approvato la Direttiva “Casa Green”, che fissa per l’edilizia pubblica e le nuove costruzioni solo energia solare dal 2026, per l’edilizia residenziale classe energetica E entro il 2030 e classe energetica D entro il 2033. Vuol dire massicce ristrutturazioni sul 15% degli edifici più energivori (per l’Italia, 1,8 milioni di immobili su 12 milioni). Nel giugno 2022 l’assemblea di Strasburgo ha approvato la proposta della Commissione che dal 2035 vieta la vendita di nuove vetture a benzina e diesel e l’obbligo per i costruttori di fabbricare solo veicoli a emissione zero. Sul fronte agricolo si ipotizzano ristrutturazioni profonde dell’intera filiera agroalimentare e forestale: dietro all’acronimo Lulucf (Land Use, Land Use Change and Forestry) spuntano adempimenti rigorosi per l’abbattimento delle emissioni e interventi tecnologici per riqualificare semi, fertilizzanti, coltivazioni e allevamenti. A tutto questo si aggiunge il pacchetto “sovranità industriale”, con il nuovo regolamento sulle batterie, le politiche per l’accesso alle materie prime critiche e ai semiconduttori.
Il target emissioni zero ci presenta il conto. Negli Stati Uniti, secondo un’inchiesta del Nyt, gli oltre 500 mila nuovi posti di lavoro l’anno promessi dalla Casa Bianca con la Green Economy trasformeranno i lavoratori americani in un gigantesco magazzino Amazon, con “orari di lavoro estenuanti, magre rappresentanze sindacali, stipendi mediocri, benefit modesti”. In Francia, con l’abbandono dei motori termici dal 2035, la filiera automobilistica perderà 100 mila impieghi. In Germania, secondo IgMetal, con la totale elettrificazione del comparto auto un lavoratore ne sostituirà sette.
Abbiamo un problema serio, se il messaggio principale lanciato dall’Europa iper-regolata di Bruxelles ai suoi popoli è che la transizione energetica ed ecologica implica solo privazioni. Andiamo a sbattere, se le classi dirigenti chiedono ai cittadini di rinunciare a tutto, dal salotto alla macchina all’orto, senza offrire in cambio niente. Senza cioè predisporre subito la nuova filiera dei veicoli elettrici, senza indicare come e dove si produce il saldo positivo tra posti di lavoro persi e creati, senza colmare lo spread tra il costo infinitamente più alto delle nuove abitudini rispetto alle vecchie, senza aggredire il Moloch triplicato degli obblighi burocratici. Sarà proprio questa mancanza di un tangibile trade-off della transizione, a far precipitare la contesa politica nell’arena climatica.
È già successo, nel passato recente. In America, alle presidenziali del 2016 e del 2020, sono risultati decisivi Stati come il North Dakota (dove è partita la rivoluzione del fracking), il Wyoming (dove si estrae il 40% del carbone Usa). In Svizzera, al referendum sul clima del giugno 2021, nonostante una larga maggioranza favorevole nei sondaggi della vigilia, ha prevalso il no alla carbon tax sui combustibili fossili e all’imposta sui biglietti aerei per finanziare le rinnovabili. In Australia, alle politiche del maggio 2022, il premier laburista Anthony Albanese ha vinto grazie al voto dei verdi nelle aree urbane e nelle zone più colpite dalla grande siccità e i grandi incendi del 2019.
Ora tocca alle Europee 2024, e le destre preparano il terreno. I partiti conservatori hanno già aperto la campagna elettorale tra le organizzazioni agricole e gli allevatori di bestiame del Nord Europa, e sono pronti all’attacco degli “euroburocrati” progressisti guidati proprio da Timmermans. La radicalizzazione/polarizzazione dello scontro climatico porterà a quello che Rutelli definisce il pericolo delle opposte fazioni: una massimalista e declaratoria, felice di trovarsi in minoranza con una raffica di denunce e di no, l’altra populista e spiccia, convinta che con tutti i problemi che già abbiamo sarebbe folle farci del male da soli, “tanto il clima cambierà lo stesso e noi saremo solo più poveri”. Quale dei due schieramenti sia avvantaggiato è piuttosto evidente. Tra la sinistra che predica e vieta e la destra che pratica e protegge il match sembra quasi scontato. La spugna populista-sovranista assorbe tutto: il negazionismo climatico e il protezionismo economico, il conservatorismo valoriale e il corporativismo sociale. L’esempio è Javier Cortes, uno dei leader di Vox, partito neo-franchista alleato dei Fratelli d’Italia, che tuona contro “la religione climatica spinta dall’elitismo di chi vuole abolire le nostre frontiere, la nostra libertà e la nostra identità”.
In questa sfida giocata sui mali della Terra sarà interessante capire come si schiererà proprio Giorgia Meloni, che finora non ha cavalcato con la feroce gioia che le riconosciamo la marcia eurofobica intrapresa dal Carroccio su “Casa Green” e motori elettrici. E lo sarà a maggior ragione adesso, che su un tema sensibile come i migranti ha compiuto uno strappo con gli alleati ugro-finnici del Patto di Visegrad. Ma sarà ancora più interessante capire come si muoverà Elly Schlein, afona su tutto dopo la batosta delle amministrative e ambigua soprattutto sulle tematiche ambientali. Come ha scritto magistralmente Concita De Gregorio: la segretaria parla a raffica per un’ora, tu riempi il taccuino di appunti ma alla fine non trovi il titolo. Basti pensare al termovalorizzatore di Roma, che la leader del Pd ha nascosto dentro una fitta e impenetrabile nuvola di frasi e perifrasi senza senso. Speriamo di vederla arrivare, prima o poi.
Il pianeta va salvato, qui ed ora, ma serve un enorme sforzo culturale e politico per spiegare alla gente come ci si può riuscire senza deporre morti e feriti sull’altare della de-crescita e della de-globalizzazione. Coniugando la difesa della natura e il diritto al lavoro, la tutela ambientale e la trasformazione industriale. È un compito immane, che chiama in causa la tenuta sociale e persino istituzionale dei Paesi dell’Unione, dove il rancore e il disagio del ceto medio impaurito e impoverito non hanno smesso di covare. In ogni capitale europea c’è un gilet giallo dietro ogni angolo di strada. Non va preso a manganellate dalla polizia: va preso per mano dalla politica. In caso contrario, rischia di diventare certezza il dubbio sollevato un anno fa da Cameron Abadi, su Foreign Affairs: “E se democrazia e mitigazione climatica fossero incompatibili?”.
LA STAMPA
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