Silvio Berlusconi è morto



Tante macchie ne hanno oscurato la vita pubblica. L’origine dei capitali con i quali Berlusconi ha iniziato la sua attività di imprenditore è ancora avvolta nel mistero. L’uso della maggioranza parlamentare per varare leggi ad personam al fine di difendersi dai processi si sostituì alle promesse di riforma del sistema giudiziario mai mantenute. E l’impero televisivo , nato con uno stratagemma per aggirare il divieto, la diffusione delle cassette registrate a una rete di tv locali, fu legittimato con un decreto legge da Craxi, suo amico e testimone delle nozze con Veronica Lario, che lo salvò dal sequestro ordinato da tre pretori. Però, come sempre nella sua vita, ognuno di queste vicende ha il suo risvolto. Per esempio: chi può negare che la fine del monopolio pubblico della televisione fosse ormai matura, non più giustificata dalla greppia dei partiti sulla Rai, un fattore di modernizzazione che ha cambiato l’Italia? Berlusconi colse con spregiudicatezza la mela, e si fece aiutare da chi allora era più in alto di lui. Però così cambiò, oltre che la sua fortuna, anche la vita degli italiani, soprattutto dei più isolati, anziani, poveri e meno scolarizzati, che poterono riempire le loro serate dei quiz di Mike Bongiorno e delle telenovelas brasiliane, per giunta gratis, senza canone. Più volte la sinistra ha sbattuto la testa contro questo spigolo: ciò che lei trovava intollerabile e insopportabilmente populista in Berlusconi, la gente semplice lo trovava ammirevole. Il mito, così americano, dell’uomo che si era fatto da sé, sedusse il popolo, espropriandone la sinistra. Sopratutto Berlusconi scoprì «le grand bleu» della politica italiana, il mare azzurro e profondo degli elettori moderati, o comunque ostili alla sinistra.

Il Cavaliere, complice il passaggio al sistema elettorale maggioritario nel 1994, riuscì a prendersi il centro, sulle spoglie della Dc, e a riunirlo con la destra nordista di Bossi e sudista di Fini. Per la prima volta dal 1876, l’Italia conobbe l’alternanza. Uno schieramento vinse le elezioni e passò dall’opposizione al governo. Forse fu proprio la radicalità e la partigianeria di questa nuova politica (che un altro amico di Berlusconi, Cesare Previti, sintetizzò brutalmente con la frase «noi non facciamo prigionieri»), a fare scandalo in un paese abituato al «connubio» tra Cavour e Rattazzi e al «compromesso storico» tra Moro e Berlinguer. Di certo Berlusconi ci mise del suo. Aveva il gusto, o l’improntitudine, di scandalizzare l’uditorio con dichiarazioni politicamente scorrettissime, che hanno fatto il giro del mondo e lo hanno trasformato in un personaggio pittoresco per la stampa estera: come quando diede dell’«abbronzato» a Obama, alludendo al colore della sua pelle. O come quando, nella foto ufficiale di un vertice europeo, fece il gesto delle corna dietro le spalle del suo omologo spagnolo, come un studente liceale in gita. Ma anche in Italia ne ha dette.

La magistratura «cancro del Paese» fu forse la frase più contestata. Un certo scalpore fece anche il discorso in cui affermò di non poter credere che «ci siano in giro così tanti coglioni» disposti a votare contro di lui. Si è sempre sentito un uomo cui il successo consentiva di mettersi al di sopra delle convenzioni, se non delle leggi. L’andirivieni delle «olgettine» nelle sue residenze private non aveva, è vero, rilevanza penale, come i processi hanno poi accertato; ma la rivelazione delle sue «cene eleganti» ha avuto una notevole rilevanza nel cristallizzare un giudizio negativo sull’uomo di Stato, che in ben altre faccende dovrebbe essere affaccendato (oltre a costargli il matrimonio con Veronica Lario).

Eppure il bilancio finale del Berlusconi politico non è negativo a causa di tutte le cose che ha minacciato di fare o che i suoi avversari gli hanno imputato di aver fatto; ma piuttosto per quelle che aveva promesso e che non ha fatto. Il più longevo premier della storia della Repubblica ha lasciato sulla carta la «rivoluzione liberale», fatta di meno tasse e più crescita, la promessa che lo aveva portato al governo. Non è riuscito a cambiare la Costituzione, perché la sua riforma fu sonoramente battuta nel referendum. Non riuscì – né davvero ci provò veramente mai – a riscrivere il sistema giudiziario italiano in un senso più garantista e meno dominato dalle Procure, preferendo il piccolo cabotaggio delle leggi «ad personam».

Non ha mai neanche lontanamente accettato l’idea di costruire una successione, tagliando anzi la testa uno a uno a tutti i potenziali «delfini», e così presumibilmente portando alla fine con sé la sua creatura, Forza Italia. La quale, negli ultimi anni del declino fisico ed elettorale del Cavaliere, si è infatti trasformata in una corte medievale, dove le fortune o le disgrazie dipendono dai favori dell’ultima fidanzata, dall’ambizione dell’ultima assistente, dalle manovre dell’ultimo cortigiano. Berlusconi ha avuto tutto per cambiare l’Italia, consenso, successo, forza, soldi, potere; e non ce l’ha fatta.

A 86 anni, ha persino sperato per un non breve momento di suggellare la sua straordinaria biografia trasformandola in leggenda, con l’elezione al Quirinale. Il semplice fatto che l’abbia sognato ci ha detto tutto sul tramonto della sua era.

Ha molti alibi. E non solo nel testardo accanimento delle procure (Milano in testa) contro di lui. I due tragici eventi epocali che sconvolsero il mondo proprio all’inizio dei suoi governi, l’attacco alle Torri Gemelle nel 2001 e la crisi dei subprime nel 2008, sicuramente ne frenarono le ambizioni. Ma il suo passaggio nella storia politica dell’Italia ha lasciato anche tracce indelebili: per esempio il bipolarismo, stagione da lui dominata, e forse non a caso subito finita appena lui è uscito di scena, per ridare spazio negli ultimi anni agli antichi vizi italiani del trasformismo e delle maggioranze che cambiano come gli abiti col cambiare delle stagioni. Neanche l’ultimo «miracolo» gli è riuscito.

Una volta don Verzè, fondatore del San Raffaele di Milano di cui era amico e benefattore, rivelò che gli aveva chiesto «di campare fino a 150 anni per mettere a posto l’Italia». Contava sui progressi della scienza, o forse scherzava su un suo diritto all’immortalità. Si è spento in quello stesso ospedale a 86 anni, appena due in più della media nazionale. A conferma della sua natura di «arci-italiano», di autobiografia della nazione, di quell’Italia di cui in un celebre incipit disse «è il Paese che amo».

CORRIERE.IT

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