Uno, nessuno, centomila B
L’implacabile trasvolatore di regole e ricercatore di scorciatoie che denunciavano i suoi critici, ma anche il commendatore col cuore in mano che ogni anno si rifiutava di licenziare un dipendente ladro perché lo sapeva padre di un disabile, come mi raccontò Maurizio Costanzo. Fedele Confalonieri, forse la persona che lo ha conosciuto meglio, una volta lo definì “un Ceausescu buono”, cioè un dittatore dolce, ma nessuno può avere la risposta giusta, dal momento che lo sono un po’ tutte.
Lui stesso faticava ad accettare di contenere moltitudini, un miscuglio di luci e ombre. Una sera, in volo sul mar Tirreno dopo un comizio, chiese al giornalista che lo stava intervistando, Pino Corrias, che cosa volessero davvero i giudici da lui. Corrias rispose: «Credo sospettino che lei abbia usato capitali non suoi, agli inizi». Berlusconi, troppo stanco per cavarsela con una battuta, sospirò: «Nella mia vita di soldi ne ho usati tanti. E i soldi si prendono dove ci sono». Non riusciva a capire che cos’avesse fatto di male, e soprattutto di diverso, da tanti altri imprenditori di prima generazione.
Alla fine, come succede a tutti, sarà la sua eredità a definirlo. L’impressione è che abbia lasciato un segno ovunque, tranne che in politica. Lì ha imparato fin troppo bene il mestiere, ma a differenza dei grandi leader del dopoguerra non ha saputo legare il suo nome a una riforma in grado di sopravvivergli. In fondo i suoi elettori gliene chiedevano una sola: la riduzione drastica delle tasse. Il 28 marzo 1994, nel commentare l’inatteso trionfo elettorale, disse: «Abbiamo fatto la cosa più difficile, fermare i comunisti. Ora non ci resta che la più facile, governare». Invece si direbbe l’unica che non gli è riuscita.
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