Elon Musk, le democrazie e la dittatura dell’algoritmo
Antony Blinken e Margaret Vestager non hanno dubbi: «La imbriglieremo, è in gioco la democrazia», hanno detto due settimane fa. «L’Intelligenza Artificiale è frutto della mente dell’Uomo – hanno aggiunto – e dunque alla fine l’Uomo saprà come tenerla a bada». L’ottimismo della volontà del segretario di Stato americano e della commissaria europea pare un po’ eccessivo. Allo stato attuale sembra più realistico il pessimismo della ragione di Nouriel Roubini, convinto che alla fine l’algoritmo possa davvero battere il neurone, consentendo tutt’al più a un’élite ristrettissima di straricchi di prendersi l’intera posta, e a tutti gli altri di perdere il lavoro, il reddito e la dignità. Se persino i Web Evangelists della Silicon Valley oggi dicono «fermiamoci, prima che sia troppo tardi», allora c’è da preoccuparsi sul serio.
Nel 2016 Richard Socher, fondatore di MetaMind, dichiarava all’Economist: «La nuova tecnologia sarà applicata in tutti i settori nei quali ci sia qualsiasi genere di dati, dalla genetica alle immagini, al linguaggio». Aveva ragione lui. Oggi, come confessa l’androide morente di Blade Runner, abbiamo visto già cose che noi umani… In un frame perfetto ma farlocco, Trump viene arrestato brutalmente dalla Polizia di New York, mentre Papa Francesco se ne sta infagottato dentro un enorme piumone bianco candido come la sua veste. La Regina d’Olanda, Maxima, in un canale al centro di Amsterdam, affianca un robot che taglia il nastro all’inaugurazione di un ponte costruito con una stampante 3D. Deep Mind AlphaGo, nipotino super-evoluto del Deep Blue Ibm che nel ’97 sconfisse per la prima volta il campione di scacchi Garry Kasparov, ha imparato a dominare un gioco che ha più mosse potenziali di quanti atomi esistono nell’universo. FamilyMart, catena di minimarket giapponese, aprirà entro il 2024 mille negozi interamente gestiti dall’Intelligenza Artificiale, che grazie ai robot esporranno e gestiranno 3 mila prodotti.
Secondo il McKinsey Institute l’Intelligenza Artificiale, per velocità e per intensità, ha una forza di trasformazione delle nostre società 3 mila volte maggiore rispetto a quella che ebbe la Rivoluzione Industriale del ‘700. Le stime più recenti dicono che ChatGPT e le sue consorelle distruggeranno almeno 300 milioni di posti di lavoro. Non solo personale meno qualificato, ma anche colletti bianchi, impiegati e dirigenti, professionisti e creativi. Meta, l’attuale Facebook di Mark Zuckerberg, con un market cap di quasi 1.000 miliardi di dollari, dà lavoro a meno di 60 mila persone: Ford, con un market cap di 77 miliardi di dollari, occupa 186 mila addetti. È la trappola già denunciata più di mezzo secolo fa dal genio predittivo di John Maynard Keynes: «Siamo colpiti da una nuova malattia… ossia la disoccupazione tecnologica. Significa disoccupazione dovuta alla nostra scoperta di poter economizzare l’uso di lavoratori che procede più veloce del trovare nuovi utilizzi per i suddetti…». E il problema non è solo il calo occupazionale. È anche il dumping salariale. Secondo i ricercatori Daron Acemoglu del Mit e Pascual Restrepo della Boston University, nella prima fase di implementazione industriale, un robot in più ogni mille lavoratori riduce l’impiego dello 0,2 per cento e le retribuzioni dello 0,5 per cento.
Già Stephen Hawking temeva che l’Intelligenza Artificiale avrebbe potuto «segnare la fine della razza umana». Oggi lo dicono gli stessi umani che la stanno producendo, accelerando, perfezionando. Come Geoffrey Hinton, che il 13 maggio si è dimesso da Google, dov’era il padrino dell’algoritmo, «perché voglio poter parlare liberamente dei suoi pericoli». O come lo stesso Musk, ammesso che sia sincero, quando confessa sempre all’Economist che non vedrebbe con favore l’ipotesi di un’Intelligenza artificiale capace di acquisire il controllo totale delle operazioni sulle sue Tesla: «Può andar bene se hai come imperatore Marco Aurelio, meno bene se ha Caligola». Dunque, il problema di fondo è: «Chi sarà l’imperatore», l’uomo o la macchina? E in ogni caso, qui come altrove: chi controllerà il controllore? È la domanda chiave, e la risposta di Roubini è chiara: che siano gli Stati Uniti o la Cina, che sia una nazione o un’istituzione, che sia una persona o un computer, «chi controllerà l’Intelligenza Artificiale diventerà la superpotenza mondiale dominante».
Noi cittadini, quando pensiamo a ChatGpt o a OpenAI, semplifichiamo. Ci vengono in mente gli studenti, che a scuola usano l’algoritmo per fare il tema in classe. Magari fosse solo questo. Yuval Noah Harari, giustamente, ci invita a pensare più in grande. Alle elezioni presidenziali americane del 2024, per esempio, quando strumenti basati sull’Intelligenza Artificiale potranno essere usati (perché no, anche da Musk con Twitter) per creare contenuti politici, notizie false, testi sacri. Prima o poi potremmo trovarci a fare discussioni online sull’aborto, sui disastri ambientali o sulla guerra in Ucraina con «un’entità» che sembra fatta di carne e di ossa, e invece non lo è. Prima o poi Intelligenze Artificiali contrapposte potrebbero scontrarsi in rete, senza che noi elettori ce ne rendiamo conto, «per stabilire con noi un finto legame e convincerci a votare per questo o quel politico».
Anche l’algoritmo, alla lunga, sarà parte del confronto-scontro tra democrazie e autocrazie. Le prime trarrebbero solo vantaggi da una disciplina severa su questo, senza la quale si produrrebbe solo un caos sociale più favorevole alle seconde. Nessuno si illude di fermare il progresso: purché ci si intenda sul senso più profondo del termine progresso. L’Universo iper-tecnologico, socio-fobico ed eugenetico raccontato da Dick in Dottor Futuro, verso il quale potremmo presto incamminarci, non lo è affatto. Torno ad Harari, e per concludere: abbiamo appena incontrato un’intelligenza aliena, qui sulla Terra, e non ne sappiamo molto, tranne che potrebbe distruggere la nostra civiltà. Dobbiamo regolamentarla in fretta, prima che sia lei a regolamentare noi.
LA STAMPA
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