Spataro: la fine dell’abuso d’ufficio nuoce a tutti e favorisce i reati dei “colletti bianchi”
Ed entrambi, è stato pure detto, sono «reati spia» che permettono di operare un doveroso e responsabile controllo di legalità sui comportamenti illegittimi dei Pubblici Ufficiali e degli Incaricati di Pubblici Servizi, talvolta collegati a pratiche corruttive e ad attività gestite da associazioni criminali.
Quanto alle modifiche riguardanti il Codice di Procedura penale, sono molte quelle che destano particolare preoccupazione.
Si intende limitare il diritto-dovere di informazione attraverso l’introduzione di divieti di pubblicazione del contenuto di intercettazioni, consentendola solo per ciò che è riprodotto dal giudice nella motivazione di un provvedimento o è utilizzato nel corso del dibattimento. Il ministro Nordio ha affermato che «le intercettazioni sono una barbarie da 200 milioni di euro l’anno con risultati minimi. Ma vi pare che la mafia parla al telefono?». Non so in quale mondo viva il ministro, ma certo le sue parole sono smentite da inchieste in tutta Italia e dalla capacità degli investigatori di saper interpretare i colloqui – pur «criptati» – tra ogni tipo di criminali.
Il Ddl sembra poi ignorare – come ha ricordato l’avvocato Malavenda – che dopo l’entrata in vigore della riforma Orlando varata alla fine del 2017, dopo interlocuzione con i magistrati, il sistema delle intercettazioni funziona, come quella della necessaria doverosa riservatezza su ciò che è inutilizzabile e/o irrilevante: lo ha anche affermato recentemente il Garante per la privacy. Si continuano a leggere casi di fughe di notizie e di pubblicazioni di conversazioni registrate che riguardano vicende di anni lontani, ma nessuno è in grado di citare fatti recenti e la ragione è una sola: sono già ora selezionate ed acquisite solo le intercettazioni rilevanti che, al contrario delle altre, cessano di essere segrete. Pensare di impedire ai giornalisti commenti e pubblicazioni riguardanti notizie non più segrete è persino contrario a ciò che ha affermato la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, come ricordato da Vladimiro Zagrebelsky su questo quotidiano, ha riconosciuto ai giornalisti la libertà – o meglio, il dovere – di informare su tutto ciò che ha rilievo per il dibattito pubblico, anche al di là dei limiti dei segreti. Sui limiti del dibattito pubblico ha poi aggiunto che dovrebbero con rigore vegliare gli organi della professione giornalistica, poiché tanto più difendibile è la libertà di informare quanto più attento è il rispetto dei suoi limiti e della sua finalità. È chiaro, dunque, che il corretto giornalismo non arretrerà rispetto ai progetti di riforma finalizzati a limitarne comunque il ruolo, allo stesso modo – sia consentito il richiamo ad un’altra assurda norma già in vigore – in cui una nave che ha effettuato un salvataggio in mare effettuerà anche il secondo pur in assenza di permesso amministrativo.
Rasenta invece la comicità – e spiace dirlo – la proposta di introdurre l’interrogatorio preventivo rispetto alla eventuale applicazione di una misura cautelare, in tutti i casi nei quali, nel corso delle indagini preliminari, non sussistano le esigenze cautelari del pericolo di fuga e dell’inquinamento probatorio e si ipotizzi, invece, solo il pericolo di reiterazione del reato. Il tutto, salvo che non si proceda per reati di rilevante gravità (delitti commessi con uso di armi o con altri mezzi di violenza personale). In realtà, bastano davvero poche parole per commentare questa «originale» ipotesi: non esiste una misura cautelare restrittiva della libertà la cui esecuzione non sia «a sorpresa». Lo è anche quella emessa per il pericolo di reiterazione del reato. E come non considerare i casi di provvedimenti cautelari che riguardino più persone, di diverso spessore criminale per alcune delle quali sussiste il pericolo di fuga e di inquinamento probatorio? Si può credere che queste ultime non verranno a sapere che saranno a breve arrestate? E perché escludere il pericolo di fuga o di inquinamento delle prove dopo l’interrogatorio dell’indagato?
Il provvedimento prevede poi il giudice collegiale (tre magistrati) per l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere o di una misura di sicurezza provvisoria quando essa è detentiva. Ed altri tre continueranno a formare il Tribunale del Riesame in caso di impugnazione. Molti presidenti di Tribunali hanno già lanciato grida d’allarme: in varie sedi i giudici penali in servizio sono meno di 6 e, comunque, in ogni caso chi fosse intervenuto per decidere sulla misura e sulla impugnazione non potrebbe certo far parte – per incompatibilità – del Tribunale che emetterà la sentenza. Non basta certo, per far fronte alla nota carenza di organico, prevedere che tali norme si applichino decorsi 2 anni dall’entrata in vigore della legge e che 250 nuovi giudici (numero del tutto insufficiente) andranno a rafforzare gli organici grazie ad un concorso da espletare nel 2025. La giustizia sarebbe ancora vittima di un allungamento dei tempi in nome di fasullo garantismo.
Del tutto incostituzionale, invece, appare sin d’ora la inappellabilità da parte del pm delle sentenze di proscioglimento «per i reati oggetto di citazione diretta indicati all’art. 550 del Codice di procedura penale (contravvenzioni, delitti puniti con la pena della reclusione non superiore nel massimo a quattro anni o con la multa, sola o congiunta alla pena detentiva e altri reati specificamente indicati)». La legge Pecorella del 2006 che limitava l’appello dei pm contro le sentenze di proscioglimento fu dichiarata incostituzionale e non si vede come possa essere riproposta sia pure limitando l’inappellabilità solo ad una categoria reati presentati come «minori» (quelli previsti dall’art. 550 cpp), ma che tali non sono solo che si consideri la lunga lista di reati gravi come resistenza a pubblico ufficiale, falsa testimonianza, istigazione a delinquere, evasione e rissa aggravata, violazione di domicilio, lesioni personali stradali gravissime, ricettazione, inosservanza dell’obbligo di soggiorno previsto dal codice antimafia etc.. E va anche considerato che limitare l’appello del pm – senza contestualmente intervenire su quello degli imputati – significa anche ignorare l’esigenza di tutela delle parti offese dai reati che a quell’impugnazione spesso si affidano.
Già alla fine del 2022, in occasione della festa per i 10 anni di FdI, Nordio intervenne affermando che «non c’è reato di lesa maestà nel voler cambiare la Costituzione…»: e fin qui aveva ragione. Ma poi aggiunse che la Carta è «incompatibile con il nostro sistema giudiziario» e che dunque va cambiata a partire dalla magistratura, introducendo la separazione delle carriere e la discrezionalità dell’azione penale e soprattutto intervenendo sul pm, «unico potere al mondo con facoltà esecutive enormi senza avere alcuna responsabilità». Temo, dunque, che, per la giustizia, il peggio deve ancora arrivare. Occorre dunque una mobilitazione consapevole dei cittadini italiani ed una approfondita e corretta informazione per evitare altri interventi sgangherati.
LA STAMPA
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