Riforma della giustizia, se si parte col piede sbagliato

Forse è a partire da questa domanda che ognuno potrebbe fare la sua parte. La politica recuperando la propria responsabilità e autonomia, magari decidendo di lasciare al suo posto (oppure no, a seconda dei casi, ma comunque non per la semplice esistenza di un’indagine) chi è sottoposto a procedimenti penali prima che arrivino a qualche conclusione. La magistratura ricorrendo alla «buona pratica» (peraltro ora codificata dalla recente riforma Cartabia) di precedere all’iscrizione di una persona sul registro degli indagati quando risultano «elementi a suo carico» e non solo a seguito di un banale esposto; magari «specifici elementi indizianti», come suggerisce il procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo. Il mondo dell’informazione raccontando i fatti (e le notizie su indagini e processi) per quello che sono, e non per quello che una parte o l’altra vorrebbero farli apparire.

Potrebbe essere un modo per evitare iniziative drastiche o dichiarazioni roboanti, che inevitabilmente alimentano il sospetto di doppi o tripli fini. Anche perché siamo solo a un disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri, e l’iter parlamentare potrebbe suscitare ulteriori appetiti.

Discorso analogo per le intercettazioni. Il progetto del governo mette una stretta che lascia perplessi: si potrà pubblicare solo ciò che è trascritto nei provvedimenti del giudice, ma che succede — per dirne una — quando questi richiamano (come quasi sempre accade) le richieste del pubblico ministero che a loro volta attingono dalle informative di polizia giudiziaria? Come può non derivarne un’informazione mutilata, a partire dall’inquietante principio che un dato non più segreto e legittimamente acquisito non può essere reso pubblico?

Forse sarebbe meglio fare leva su un autocontrollo (in primo luogo degli operatori dell’informazione) che non sempre c’è stato, sebbene l’ultima riforma abbia ulteriormente limitato possibili violazioni della privacy. E sarebbe consigliabile, da parte di tutti, qualche revisione culturale, prima che normativa. Per sfuggire alla logica del conflitto permanente e al rischio di affievolire garanzie, oltre che presunti abusi. Perché come ha rilevato il procuratore generale di Cagliari Luigi Patronaggio, «essere garantisti significa garantire un giusto processo agli indagati, ma pure garantire i diritti a tutti quei cittadini che hanno subito un’offesa e un danno da un comportamento illecito». Sempre nel rispetto delle leggi, naturalmente. Anche quelle che cancellano i reati.

CORRIERE.IT

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